In questi giorni su molti portali si stanno diffondendo nuovi formati
di sponsorizzazione: si tratta di banner verticali, o a comparsa, o ancora
di animazioni che invadono e coprono l’intera pagina di un sito.
Formati che è più difficile ignorare, anche se certamente
rischiano di provocare reazioni di fastidio, almeno a sentire molti commenti
in diverse liste di discussione. Per loro stessa natura, annunci di questo
tipo puntano a interrompere e dirigere su se stessi l’attenzione dell’utente,
distogliendola dalla pagina e dunque dai motivi per i quali un utente
si era collegato. Insomma, l’usabilità di queste pagine certamente
cala, perché questi espedienti sono (volutamente) un intralcio
agli obiettivi dell’utente.
Finora l’efficacia dei banner tradizionali è stata valutata in
diversi modi. I più famosi sono:
- le ‘impression’, ovvero il numero di volte che un dato banner è
stato caricato nella pagina e quindi presentato ad un utente; - il numero di click, sia assoluto, sia rapportato al totale delle impression.
Queste due misure sono abbastanza diverse tra loro: l’impression non
implica alcuna azione da parte dell’utente. Al limite non implica nemmeno
che l’utente si sia reso conto e abbia effettivamente visto il banner.
Al contrario, il numero (o la percentuale) di click misura un’effettiva
azione dell’utente, e ha un certo valore: non solo è stata raggiunta
l’attenzione del visitatore, ma si ha l’indicazione di averne suscitato
un qualche interesse, almeno in teoria.
Ben presto ci si è resi conto che la percentuale media di click
dei banner, dopo un’iniziale buon risultato, è iniziata sistematicamente
a scendere. Cosa succedeva? Gli utenti sembravano ignorare progressivamente
questi annunci, tanto da far dimezzare la percentuale di click ogni anno,
fino ad attestarla su valori medi oscillanti fra lo 0,1 e lo 0,2 %. Valori
bassissimi, a meno di non programmare un’esposizione massiva, alla portata
di poche tasche. I prezzi dei banner di conseguenza sono crollati e i
pubblicitari hanno cominciato a temere di veder frenare un mercato fino
ad allora in espansione, o quantomeno molto promettente.
La cecità al banner
Alcune ricerche hanno messo da tempo in luce un fenomeno noto come ‘cecità
al banner’ (banner blindness: Benway, J.P,1998). Secondo queste ricerche,
i banner verrebbero addirittura evitati attivamente dagli utenti, che
ignorano le informazioni presentate su questi annunci anche quando
queste informazioni sembrano attinenti con lo scopo della ricerca
che stanno facendo! In pratica, la dichiarazione ‘scientifica’ della morte
del banner come strumento di advertising…
I pubblicitari negli ultimi anni hanno quindi iniziato ad escogitare
varie scappatoie: per un certo periodo hanno prosperato banner che simulavano
‘messaggi di sistema’, ovvero schermate che sembravano messaggi del sistema
operativo, riproducendo i bottoni a rilievo, o messaggi di allarme, o
ancora option button. Questo espediente mirava essenzialmente ad ingannare
l’utente, mimetizzando il banner dietro un widget di interfaccia che sollecitava
una precisa affordance: un invito all’azione. Ben presto però anche
questi espedienti hanno fatto il loro tempo: gli utenti imparano progressivamente
a riconoscerli e ad evitarli.
Ecco dunque nascere un estremo tentativo di evitare l’evitamento: con
banner più grandi, di formato insolito, o più invasivi.
Questa strategia assomiglia molto al tentativo di urlare più forte
in un luogo già molto rumoroso. Questi sistemi probabilmente porteranno
un iniziale aumento dei click dovuto ad un’effetto di novità, per
poi decadere come tutte le altre forme viste finora. Il rischio è
anche quello di un evitamento progressivo dei siti che fanno uso massiccio
di questi meccanismi, anche se si tratta soltanto di un’ipotesi: non vi
sono dati in merito.
La capriola più divertente è però un’altra: dal
momento che sul click-rate non si può più far molto affidamento,
molti pubblicitari iniziano a sostenere che si tratti di una misura sbagliata:
i banner andrebbero valutati per la capacità di ‘creare brand awareness’,
ovvero di diffondere la consapevolezza di un marchio, piuttosto che per
il fatto di portare visite ad un sito. Non c’è dunque più
bisogno del click!
Ovviamente, la brand awareness non è direttamente misurabile, a
differenza del click-rate. Di conseguenza, è anche molto meno obiettabile,
e i listini prezzi possono mantenersi più stabili…
Il ragionamento alla base sembra il seguente: gli spot televisivi o i
cartelloni stradali non si valutano per la loro capacità di far
fermare un passante e farlo entrare in un negozio a comprare quel prodotto,
ma per la capacità di comunicare il marchio. Perché dunque
non dovremmo valutare allo stesso modo anche il banner? Il click implica
un’azione, mentre il banner può anche semplicemente ‘comunicare’.
Siccome comunicare su uno striscione di 468×60 pixel è obiettivamente
difficile per un creativo, ecco nascere questi lenzuoli semoventi con
i quali vengono tapezzate le home page di molti portali, nel tentativo
di rivitalizzare gli investimenti nel settore della pubblicità
online.
La brand awareness esiste
E’ però difficile sostenere che tutto si possa ricondurre alla
semplice brand awareness senza avere alcun riscontro oggettivo. E infatti
va onestamente ammesso che alcune ricerche danno esiti promettenti. Businesswire
ha pubblicato già nel 1999 una ricerca che dimostrerebbe una certa
efficacia del banner tradizionale nel veicolare un brand. Per quanto attiene
all’usabilità e alla ricerca cognitiva, uno studio di Bayles (2000)
condotto con due soli banner, ad esempio, riesce a dimostrare 2 cose:
- Il 40-46% degli utenti rievoca i banner (ricordo attivo, recall);
di questi, una percentuale comunque minore ricorda anche il marchio
associato al banner. - Il semplice riconoscimento (recognition) del banner è invece
migliore: la totalità dei soggetti riconosceva almeno uno dei
banner presentati, e una maggioranza li riconosceva entrambi.
La ricerca è condotta con materiali datati e comunque relativi
a marchi riconducibili all’attività internet: ebay e amazon.
La brand awareness dunque sembra esistere, almeno in certe condizioni.
Una ricerca recente riportata da Andrea Folcio, d’altra parte, mette
in luce che la complessiva efficacia del banner (quello tradizionale e
alcune versioni più piccole) dipende da diversi fattori. Eccone
alcuni:
- la creatività del banner. Vi sono banner di maggior
appeal, e danno esiti molto diversi. - il periodo dal lancio: anche i banner migliori, comunque, si
dimostrano efficaci (click-rate) solo per un breve periodo di tempo
(dalla seconda alla terza settimana di esposizione), poi smettono di
suscitare interesse. I banner mal progettati, tuttavia, non hanno questo
andamento: la loro efficacia rimane bassa per tutto il periodo di esposizione.
Paradossalmente, si possono mantenere più a lungo, a meno di
non trovare un banner migliore… - Il contenuto visivo: banner con immagini sembrano comunque
migliori di banner testuali: ma non è chiaro cosa si intenda
con banner testuali (testo che simuli il testo della pagina, e che quindi
mimetizza il banner, o testi vistosi?). Ma soprattutto: - La congruenza tematica del banner con la pagina che lo ospita.
In questo caso il click-rate dei banner analizzati arriva fino al 7%!
Si tratta in pratica di banner riportanti annunci che sono in tema con
l’argomento della pagina che l’utente sta visitando, e quindi sono più
interessanti per quell’utente.
La congruenza fra il banner e la pagina che lo ospita si dimostra
un fattore molto importante nella pianificazione di una cambagna banner,
e c’è da giurare che si dimostrerà valido anche nei banner
più recenti, a grandi dimensioni o addirittura interattivi. Non
solo: questo risultato smentisce la ricerca di Benway sulla presunta cecità
ai banner anche quando congruenti con gli scopi dell’utente!
La cecità al banner per la verità era stata messa in discussione
anche da una nota ricerca dell’istituto Poynter.org: attraverso lo studio
dei movimenti oculari, risultava che ai banner veniva comunque riservata
una rapida occhiata (circa un secondo) durante l’esplorazione visiva della
pagina. Lo stesso Nielsen, d’altra parte, rileva come potenzialmente validi
banner esposti sui motori di ricerca nel caso questi siano congruenti
proprio con gli scopi della ricerca.
La cecità al banner sembra dunque un costrutto privo di reale
fondamento: sembra piuttosto che gli utenti vedano i banner, ma
scelgano di evitarli (o di non approfondirne l’analisi del contenuto)
se non si aspettano che siano di loro interesse. Aspettative e schemi
mentali sono ciò che guida la navigazione dell’utente, e l’evitamento
dei banner dipende proprio dal fatto che molti utenti non si aspettano
che i banner possano aiutarli a raggiungere i propri scopi. Non è
forzandoli a vedere banner più grandi che li si potrà convincere,
ma dandogli qualcosa che li possa interessare di più!
Sviluppare nuove metodologie di advertising
Pare che il banner, in generale possa alla fin fine mantenere una sua
efficacia: ma bisogna realizzarlo in maniera creativa (il significato
di ‘creativo’ è in questo caso ancora da definire…) e legarlo
il più possibile agli interessi dell’utente. Rimane da capire se
questa efficacia sia sufficiente a reggere il mercato dell’advertising
on-line: i siti tematici infatti hanno, sì, utenti più targettizzati,
ma anche un traffico minore, anche se di maggior qualità. Può
darsi che una campagna che si basi solo sui siti tematici non raggiunga
i risultati sperati, e che un bilanciamento della campagna fra siti tematici
e generalisti non sia in tutti i casi conveniente e sostenibile. Queste
considerazioni aprono nuovi spazi, ma anche nuovi problemi.
La tendenza ad invadere ancora di più la pagina con gli ultimi
formati dei banner pare invece solo l’estremo tentativo di forzare il
medium web a misure e utilizzi propri del medium tv, con l’aggiunta di
una rudimentale ‘interattività’, mantenendo il carattere intrusivo
del messaggio pubblicitario (ricordate la polemica di 15 anni fa sugli
spot nei film?).
Anche l’utilizzo di Rich Media, ovvero multimedialità, nei banner,
va in questo senso: attirare maggiormente l’attenzione. Una ricerca della
già citata Bayles sembra al contrario dimostrare che le animazioni
non incidono sull’efficacia del banner: sono altri i fattori importanti,
come abbiamo in parte visto, e spesso si anzi è dimostrato che
rendere una cosa semplicemente più grande e vistosa rischia di
farla percepire come incongruente rispetto agli scopi di navigazione e
quindi di favorirne l’evitamento. Questa è infatti proprio l’interpretazione
che Donald Norman dà per spiegare i risultati della ricerca di
Benway sulla cecità ai banner già citata.
Il tema è indubbiamente molto delicato: ma l’advertising on-line,
per decollare definitivamente, non può rinunciare a mettere a punto
analisi e strumenti più sofisticati e ‘gentili’, che prefigurino
un modello di soddisfazione reciproca (win-win: soddisfare sia l’utente
sia l’inserzionista), piuttosto che un modello intrusivo e tutto sommato
poco ‘intelligente’ come quelli verso cui ci si muove in questo periodo.
Altre soluzioni, ad esempio, prevedono l’utilizzo dell’advergaming, ovvero
di giochi interattivi legati a sponsorizzazioni. Anche in questo caso
pare però che l’effetto migliore sia quello di generare brand awareness,
piuttosto che visite. Il dibattito è aperto, e forse la soluzione
non è proprio dietro l’angolo.