Agenda digitale, PA italiana e usabilità: a che punto siamo?

La strategia europea per l’Agenda Digitale fissa obiettivi che dovrebbero portare nel 2020 ad un aumento del PIL del 5% pro-capite. Gli obiettivi sono molti e riguardano diversi settori. Strategici sono però gli interventi del settore pubblico: sia perché dovrebbero guidare la semplificazione delle procedure amministrative, sia perché quella europea è un’agenda che per definizione si basa su azioni che devo essere intraprese dai decisori politici.

A che punto è dunque la nostra PA? In fondo, negli anni 2000-2010, la PA ha spesso trainato lo sviluppo digitale in Italia, con molti interventi che hanno portato il nostro Paese, nel 2010, ad avere il 100% dei servizi pubblici disponibili online, raggiungendo così in prima fila i già virtuosi paesi del Nord e Centro Europa.

2008-2012: l’arretramento

A questo lodevole risultato, tuttavia, secondo tutti gli indicatori è seguito negli ultimi anni un evidente arretramento. Nel 2008 le persone che interagivano con i servizi pubblici online erano il 44,5%. Nel 2012, dopo 4 anni di crisi, la percentuale è crollata di ben 11 punti, mentre la media europea, seppure di poco, aumentava.

Fonte: European Commission, Digital Agenda Scoreboard

Gli indicatori di uso da parte della cittadinanza sono tutti in calo, a dispetto del forte uso che dell’eGovernment sembrano fare le imprese. Anche qui però si registra un’importante differenza: le grandi imprese utilizzano i servizi della PA più delle piccole. Se guardiamo l’indicatore della compilazione online di moduli per completare delle pratiche con la PA, vediamo che le grandi imprese italiane si collocano di poco sotto la media europea (88,6% contro 91,1%):

Fonte: European Commission, Digital Agenda Scoreboard

Al contrario, le piccole e medie imprese si collocano ben sotto la media europea (52,6% contro 71,1%).

Fonte: European Commission, Digital Agenda Scoreboard

Questo sembra indicare che i servizi ci sono, ma vengono usati solo da chi ha il personale qualificato per farlo (le grandi imprese). Sostanzialmente, sembra indicare un problema di usabilità. Non solo di usabilità, magari: anche culturale, di certo. Sembra che i privati cittadini non sentano il bisogno di usare i servizi digitali della PA. Forse è un effetto della crisi. D’altra parte l’uso di internet in Italia è genericamente in calo, ed è possibile che un ruolo lo giochi il ritardo nella diffusione della banda larga e soprattutto ultralarga. Ma forse è effetto anche di servizi mal progettati, che creano frustrazione e confusione, e scarsa percezione di valore aggiunto.

Il dato della crisi non dovrebbe infatti da solo impattare così tanto sulle piccole e medie imprese, che avrebbero tutto l’interesse (anche più delle grandi imprese) ad utilizzare i servizi pubblici digitali, se questi semplificassero procedure e pratiche. Un altro report (che indica il progresso per ciascun paese) però ci dice che in effetti la PA digitale si colloca sotto la media europea soprattutto secondo gli indicatori della trasparenza.

Se guardiamo alle ragioni per cui gli intervistati dichiarano di non usare i servizi pubblici, vediamo che ai primi posti c’è la “preferenza per il contatto personale” (dichiarazione generica) e la convinzione che il servizio “richieda comunque una visita in presenza o l’uso di una pratica cartacea per essere completato”.

Una PA User-centrica? Dipende da cosa si intende…

Sebbene lo stesso report ci dica che la nostra PA è più User-centrica della media europea, è bene specificare come è stato redatto questo specifico indice: viene inclusa sia la disponibilità dei servizi sia l’usabilità o facilità d’uso, che è però valutata solo con un metodo “esperto”, non con utenti finali ma con i cosiddetti “Mistery Shoppers”, esperti educati a valutare la facilità d’uso dei servizi, in particolare su alcuni (tre solamente) degli “Eventi della vita” (in questo report: Perdere e trovare lavoro, Aprire un’impresa e Studiare).

In particolare, i Mistery Shoppers dovevano valutare su una scala di rating la loro percezione della facilità d’uso dei servizi sottoposti a osservazione, e questo è quanto. I Mistery Shopper che valutano ogni servizio sono solo due, dunque si può intuire quanto la valutazione della facilità d’uso sia anzitutto solo soggettiva, e poi debole perché valuta solo la percezione di facilità attraverso due soli esperti.

I dettagli, per chi volesse approfondirli, sono disponibili in questo report metodologico (pdf, 4MB): eGovernment Benchmarking Method
(pagg. 10, 29-30).

Se a questo aggiungiamo che siamo agli ultimi posti per penetrazione di banda ultralarga, vediamo come la semplice presenza online dei servizi non basti: ci vogliono investimenti nel miglioramento tecnico dei servizi, ma anche un cambio culturale riguardo alla progettazione e al mantenimento degli stessi. Non una cosa astratta, ma molto concreta, come vedremo tra poco.

La legge sulla trasparenza

Per migliorare la trasparenza cos’ha fatto il governo italiano? Ha emanato una legge (DLgs. 33/2013) con una delibera (50/2013) che impone ai siti della PA una precisa denominazione dei link nei menu di navigazione (pdf, 172KB), peraltro fino al terzo livello. E, pensate un po’, questi link, oltre a essere fin dalla prima vista opinabili, non sono in alcun modo, o non ci risulta, testati con utenti. Nè derivati da card-sorting, né verificati da un reverse card-sorting o test di alberatura.

E, poiché la trasparenza si basa non solo sulla visibilità dei link e degli oggetti presenti su una pagina web, ma anche sulla loro comprensibilità per l’utente finale, non solo questa prescrizione è negativa per la scarsa comprensibilità: di fatto impedisce o ostacola un serio lavoro di progettazione dell’architettura informativa per le PA che vogliono e possono farlo!

Quindi, nel tentativo di imporre una norma uguale per tutti, uno standard (che in teoria è una cosa sensata, ma solo se se ne dimostra l’efficacia), si impedisce addirittura di lavorare in fase di progettazione su un’amministrazione davvero trasparente! Un bel risultato, non c’è che dire. Ci aspettiamo un spot in tv con il timbro “Fatto!”. Chissà che così non ci illudiamo che lo sia davvero.

Problema culturale: progettazione

Come si evince, il problema è di metodo. L’idea di imporre per legge delle denominazioni per i menu che, solo perché unificate, si presume realizzino la trasparenza, dimostra la mancata comprensione di cosa sia veramente la trasparenza. Lasciamo stare la trasparenza del linguaggio di cui sono composti gli atti amministrativi, che richiederebbe un altro capitolo di discussione. Qui parliamo soprattutto dei menu, il primo passo per arrivarci, ai servizi e agli atti. Un labeling-system che sia centrato sull’utente richiede lo studio e la verifica con l’utente, non un decreto o una legge che pensi al posto dell’utente. Richiede cioè delle pratiche progettuali che includano l’utente, non che lo scavalchino.

Ma non c’è da stupirsi: questo è anche il metodo con cui era stata redatta la legge 4/2004, legge Stanca, sull’accessibilità dei siti. Espunta la partecipazione dell’utente (figuriamoci quello disabile: troppo complicato…) dall’intero processo, ci si è accontentati di reificare l’usabilità su prescrizioni di codice. Con la conseguenza di aver sprecato una grossa occasione per un miglioramento sostanziale e non formale del web italiano.

Il caso del bando EFSA

Fortunatamente non ci limitiamo a criticare, ma a segnalare esattamente come si dovrebbero migliorare i servizi della PA: cambiando il modello del processo di progettazione, e adottandone uno che preveda esplicitamente, cioè fin dai bandi, la cura dell’usabilità e la progettazione della User Experience. Per esempio includendo in ogni fase strumenti di intervista, di architettura informativa centrata sull’utente, la preparazione di wireframe, prototipi e l’esecuzione di test con utenti.

Come si può normare questo per legge? Be’, se si impongono i menu per legge, figurarsi se non si possono imporre buone pratiche di progetto. Infatti si può. Per esempio, prendendo spunto dalle buone pratiche esistenti. Un caso recente ce le indica, è il caso del bando pubblico per il sito dell’EFSA, l’agenzia europea per l’alimentazione, unica fra le agenzie europee ad aver sede in Italia, a Parma. Se lo studiate, in particolare la sezione 1.4 di questo documento pdf vedrete che sono previste fin dal bando alcune attività obbligatorie, che si concludono con la consegna di precisi deliverables che ne attestino esecuzione e risultati e che sono mutuate dalle migliori pratiche in ambito UX. Sono centrate sull’utente, non sono arbitrarie perché hanno un nome univoco e riconosciuto che chiarisce di che si tratti. E hanno anche un bel tetto di spesa a scanso di equivoci: qui il problema non è spendere di più, ma lavorare nel modo corretto. Il bando EFSA prevede un budget massimo di 300.000 euro, indicando un range di 200.000-300.000, ma prevedendo anche di poter persino scendere sotto i 200.000.

Un budget persino ridicolo, per molti progetti-monstre nostrani, che prevedono decine e decine di migliaia di euro solo per il lavoro di realizzazione di una manciata di bozzetti grafici nemmeno declinati, e realizzati arbitrariamente (senza studio con l’utente) da studi grafici spesso anacronisticamente (e ingiustificatamente) de-luxe.

Il focus di ogni progettazione per la PA dovrebbe essere:

  1. Fare in modo che i servizi online comportino un’effettiva semplificazione delle procedure, e non una loro complicazione, come troppo spesso ancora avviene. Il che richiede progettazione, ma anche disponibilità a rivedere la pratica stessa, non solo in digitale. Ma certo almeno in digitale!
  2. Fare in modo che architettura dell’informazione, scelte linguistiche e collocazione delle voci nelle varie pagine siano comprensibili e significative per l’utente finale, e non semplicemente conformi ad uno standard calato dall’alto.

Solo in questo modo anche imprese che non abbiano personale dedicato potranno avvalersi dei servizi della PA per ridurre i tempi di svolgimento delle pratiche e ricavarne effettivo vantaggio economico. Queste cose però non possono essere imposte con prescrizioni, ma solo con pratiche di processo centrate sull’utente. Cosa che, come alcuni bandi dimostrano, è possibile a costi invariati. Fin da ora. Il resto sono alibi.

Conclusioni

Molti lamentano un ritardo nell’istituzione dell’Agenda Digitale italiana, poca chiarezza nei budget. Ed è certamente un problema serio: senza investimenti mirati, anche se magari ridotti, certi problemi strutturali e infrastrutturali non possono venir risolti.

Tuttavia, il problema della progettazione (e riprogettazione) dei servizi web per renderli effettivamente utili e comprensibili agli utenti si può risolvere da subito, attraverso il modo in cui sono costruiti i bandi, in modo da obbligare le aziende assegnatarie ad avvalersi di pratiche e di consulenti che li vincolino ad un metodo, ad un processo centrato sull’utente. Che preveda verifiche e controlli con utenti. Che costruisca la PA per i cittadini, non per legislatori poco preparati anche se magari iperattivi.

Un governo che voglia marcare una discontinuità con il passato deve iniziare a richiedere di seguire precise best-practice di processo fin dai bandi e dagli appalti, da subito. Come amano dire i politici: a costo zero.

A meno che le grosse aziende informatiche che di solito vincono questi appalti non facciano qualche tipo di azione lobbistica per poter continuare a lavorare come sempre, senza rinnovare essi per primi il loro processo. Ma via, vedi un po’ cosa vado a pensare.

4 thoughts on “Agenda digitale, PA italiana e usabilità: a che punto siamo?

  1. Complimenti per l’articolo, Maurizio. Credo che l’usabilità nei servizi on line delle PA sia ancora troppo lontana da uno user-centered design. Forse nei siti web delle amministrazioni centrali (statali e regionali) potrebbe essere un obiettivo raggiungibile, ma se parliamo dei servizi di amministrazioni locali (penso, ad esempio, ai comuni ed alle loro reti civiche), sono un po’ pessimista sul fatto che possano analizzare l’usabilità coinvolgendo anche l’utente (card sorting ecc). Mi accontenterei di un rispetto delle euristiche di Nielsen.

    La scarsa usabilità, come sottolineato dall’articolo, non aiuta il cittadino ad utilizzare i servizi on line delle PA. Ma la stessa scarsa competenza degli utenti è un freno allo sviluppo di una adeguata digitalizzazione del Paese. La poca conoscenza del media comporta diffidenza ed anche quando i servizi on line sono fatti bene, risultano poco “rassicuranti” per gli utenti. Penso non solo ai servizi della PA ma anche, per esempio, ai servizi di home banking che gli istituti di credito offrono: piuttosto che “maneggiare denaro” su Internet si preferisce pagare la commissione per il servizio allo sportello.
    Questi stessi utenti sono molti dei piccoli imprenditori che costituiscono il tessuto economico italiano. Queste persone dovrebbero essere formate per poter fruire dei vantaggi che la Rete offre. Se i cittadini non percepiscono i vantaggi di un adeguato sviluppo digitale, difficilmente il legislatore si farà carico di quest’onere se non per assecondare le direttive della UE (Agenda Digitale Europea).
    La stessa UE mette sul piatto dei fondi per sviluppare la digitalizzazione nei paesi dell’Unione (penso, ad esempio, al “digital bonus” per il quale le regioni dovrebbero istituire dei bandi appositi). Ma se non c’è un’adeguata consapevolezza della necessità di sviluppare un’economia digitale capace di renderci competitivi sui mercati questi fondi rischiano di perdersi o di andare a finanziare il lavoro degli “amici degli amici”.

  2. Grazie Alessia.

    Michele: tocchi tanti temi, tutti perfettamente centrati. Il problema della scarsa alfabetizzazione digitale dell’italiano medio, e del piccolo imprenditore medio, è certamente di quelli che non si risolvono solo con l’usabilità. E d’altra parte è pur vero che piccole realtà non possono fare usabilità con l’utente per ragioni di costi. Tuttavia, anche su questo, delle cose da dire ci sarebbero. Perché i tempi e i costi di realizzazione anche solo interna di siti e servizi online sono gli stessi che si segua una strada utente-centrica che una legata a vecchie logiche chiuse e a cascata. Il problema è semmai di formazione del personale interno (e, se c’è una commessa, di accordi con chi svolge il lavoro). E negli anni molte PA hanno fatto corsi di formazione per il personale interno. Poi si arriva al dunque, e magari chi non è formato è solo il dirigente, che non capisce perché gli si propongano cose strane come il card sorting o test semplificati su prototipi, o analisi dei requisiti che non siano calati dall’alto. Non li conosce, non li padroneggia, non vuol rischiare complicazioni, e segue sempre la stessa strada.

    Il caso che citi della scarsa capacità nostra di sfruttare anche i fondi europei purtroppo temo non riguardi solo i temi digitali, ed attiene ad una più ampia nostra difficoltà a capire e relazionarci con l’Europa anche in termini di opportunità.

    Tutte queste questioni richiedono solo una cosa: che ci muoviamo. A tutti i livelli, e con tutte le iniziative di chi siamo capaci. Questa arretratezza non è inevitabile, ma dobbiamo trovare le chiavi giuste per scardinare quelleche sono le resistenze mentali e di pratiche del cittadino, dell’imprenditore, e del dirigente della PA (il politico segue se gli conviene).

  3. Complimenti Maurizio ottimo articolo, rappresenta in una visione realistica le dinamiche della PA digitale.

    Credo anch’io che sia importante fornire delle best practices progettuali piuttosto che degli obblighi da rispettare come avviene ora.

    Da parte mia mi è venuta voglia di approfondire le tematiche del user-centered design.

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