L’usabilità e le interfacce sociali (e ubique)

Negli ultimi anni il web si è rivelato per quello che fin dall’inizio ci si sarebbe potuti aspettare fosse: una piattaforma sociale. Era nelle intenzioni di Tim Berners-Lee (che parlava di “intercreatività”) e d’altra parte studi su alcuni aspetti sociali dell’interazione uomo-computer datano fin dagli anni ’60.

Ciononostante, l’esplosione del web sociale e in particolar modo dei siti di social network è giunta relativamente inaspettata. I social network (siti come Facebook e Myspace) sono strumenti per la gestione di gruppi e di relazioni basate su interessi e gusti comuni. Ve ne sono di diversi tipi e coprono esigenze differenti, sebbene alcune funzionalità siano sostanzialmente comuni (mantenere una rete di relazioni e di messaggistica, ad esempio).

Ciò che è sorprendente non è l’avvento di questi strumenti, ma il fatto che sia stato imprevisto. Una delle ragioni è probabilmente la tendenza iniziale dei grandi gruppi a vedere il web come uno strumento di pubblicazione e distribuzione di contenuti prodotti dall’industria culturale. Si ritenne a torto che gli utenti avrebbero pagato per i contenuti e che il web sarebbe stato usato come canale distributivo di contenuti a pagamento con componenti di personalizzazione. Nel 1996 Bill Gates scrisse un memorabile articolo chiamato “Content is King”, in cui sosteneva che non nella vendita di software, ma in quella di contenuti, l’industria avrebbe ricavato le maggiori revenue. L’articolo oggi è introvabile online (un paio di anni fa era ancora disponibile all’indirizzo: http://www.microsoft.com/billgates/columns/1996essay/essay960103.asp).

L’ossessione sul contenuto (a dispetto della storia e di un’analisi seria del mercato, come dimostrò Andrew Odlyzko nel 2001) fu una delle determinanti (non l’unica) dei fenomeni speculativi alla base della new economy.

I “reality show” del web?…

Eppure già all’epoca alcuni modelli di business di grandi portali avevano intuito il potenziale dello user-generated content, i contenuti generati dagli utenti stessi. Ci furono tentativi di creare dei portali a costo zero dove offrire spazi agli utenti perché scrivessero i loro contenuti (ad esempio le proprie ricette o le recensioni ai film) gratis in modo che i gestori traessero beneficio dalla pubblicità senza dover pagare per produrre contenuto in proprio. Era troppo presto e soprattutto non si era tenuto conto della necessità di fornire strumenti di relazione, prima che di contenuto: gli utenti sono più interessati a quella che ai contenuti in quanto tali, almeno intesi in senso tradizionale.

I siti di social network sono ora proprio la realizzazione del sogno di alcuni gestori: utenti che ritornano frequentemente sul proprio sito, di propria spontanea volontà, non per trovare contenuto (peraltro costoso da produrre), bensì per gestire profili, instaurare relazioni e condividere risorse da essi stessi controllate. I gestori tentano di guadagnare con la pubblicità, anche se la monetizzazione è per ora deludente.

Si tratta tuttavia di una strada facile da percorrere, perché i social network sono relativamente poco costosi da produrre e mantenere e generano un’elevata loyalty, tanto che alcuni analisti li hanno paragonati ai “reality show” del web (PDF, 88 KB). Utenti che mettono in piazza le loro relazioni in un ambiente relativamente controllato ed economico.

Un altro motivo di interesse per i gestori è la possibilità di archiviare dati sui gusti e i comportamenti degli utenti per trarne utili informazioni di marketing. Questo pone naturalmente enormi problemi potenziali sull’anonimità dei dati e addirittura sulla liceità di queste pratiche, su cui ancora non abbastanza, forse, di si discute.

I limiti dell’usabilità tradizionale

A dispetto di questa realtà, l’usabilità sembra fornire un contributo per ora timido alla progettazione di questi prodotti. Se si effettua una ricerca con i termini “social network usability” si noterà una relativa povertà dei contributi, di metodi, di linee guida specifiche. Addirittura Jakob Nielsen se la prende con i siti 2.0 perché pieni di errori di usabilità. Il punto che sfugge alla sua analisi è che questi siti sono, dal punto di vista degli utenti raggiunti, un successo!

A spiegare questa apparente contraddizione, notata anche da altri, vi sono ragioni storiche e metodologiche. Nel campo della Human-Computer Interaction (HCI) l’usabilità ha senza dubbio, in particolare dagli anni ’80, fornito contributi decisivi, sia a livello di ricerche, sia a livello di metodi di ausilio alla progettazione. In particolare ha avuto un certo successo prima l’ingegneria dell’usabilità, e poi l’approccio “a prezzi scontati” della “Discount usability” nielseniana, ideato per abbattere la barriera d’accesso all’usabilità. Un successo accompagnato da un buon filone di critiche per lo scarso rigore quantitativo dei risultati.

In tutti i casi, i metodi incorporati in questi approcci provenivano da una visione che affonda le radici nello studio dell’utente singolo, alle prese con compiti parcellizzati, in cui è soprattutto l’efficienza (cioè il compiere le azioni con il minor dispendio di energia e di mezzi e la riduzione del numero di errori) ad essere al centro dell’attenzione. Questo approccio è perfettamente sensato in una varietà di situazioni. Da quelle in cui l’utente è inserito in un ambiente ad alta produttività, ed esegue ripetutamente gli stessi compiti nel corso della giornata e delle settimane, fino a quelle che coinvolgono la possibilità di rischi per la salute delle persone, come nel caso di pannelli di controllo in aziende pericolose, di piloti di aerei, eccetera.

L’efficienza non è tutto

Di scuola tipicamente nordamericana, questo approccio all’usabilità ha il demerito di sovrastimare i problemi di efficienza rispetto alle altre componenti del concetto multidimensionale di usabilità che comprende l’efficacia e soprattutto la soddisfazione dell’utente, e trascura addirittura sfacciatamente i contesti d’uso. Tanto che lo stesso socio di Nielsen, Donald Norman, ha concentrato la sua attenzione in anni recenti sul “Design emotivo” e sulla disseminazione del computer nella vita di tutti i giorni.

In effetti, il punto di arrivo del social web sembra proprio essere nell’ubiquità. Cioè nella sempre più crescente interazione fra web e mondo reale, mediata soprattutto da dispositivi portatili sempre più capaci, interoperabili con altri dispositivi inseriti nel mondo fisico e con strumenti di georeferenziazione e di identificazione delle informazioni e degli oggetti (come gli strumenti RFID).

In queste situazioni, non solo gli strumenti tradizionali dell’ingegneria dell’usabilità si rivelano parzialmente inadeguati per l’eccessiva enfasi sull’efficienza a scapito soprattutto della soddisfazione: essi sono anche inadeguati a cogliere gli aspetti sociali dell’interazione con i computer, perché si limitano o a modellare rigidamente pochi compiti, o a studiare l’utente da solo in condizioni di laboratorio. Questo riduce la possibilità di cogliere le implicazioni relazionali, le motivazioni reali degli utenti, le tipologie degli scambi che avvengono con persone diverse in condizioni variabili. Elementi che però sono al centro degli usi presenti e futuri di molte applicazioni sul web.

Differenze fra interfacce individuali e interfacce sociali

Per rendere l’idea useremo un esempio fatto da Joel Spolsky in un’analoga analisi sull’inadeguatezza dei metodi tradizionali dell’usabilità nella progettazione di interfacce sociali. Supponiamo, dice Spolsky, che in un social network o in un’applicazione sociale un utente tenti di inserire un messaggio non desiderabile, ad esempio la pubblicità del Viagra. Secondo le regole dell’usabilità, il sistema dovrebbe capire che l’utente sta compiendo un atto inaccettabile e segnalarglielo. Ad esempio, con un messaggio del tipo “Attenzione: l’argomento Viagra non è fra quelli consentiti”. Feedback all’utente. Perfetto. O no? Evidentemente no, perché in questa situazione l’utente sta in realtà tentando di portare un danno al sistema (e di ottenere un illecito beneficio personale). Se segnaliamo in questo modo l’abuso, tramite un tradizionale feedback, l’utente non farà altro che imparare a ingannare il sistema, inserendo ad esempio un messaggio che pubblicizzi il… V1agra! Sistema ingannato, grazie proprio al suo feedback!

Come dovrebbe comportarsi, dice Spolsky, un sistema socialmente intelligente? Dovrebbe ingannare l’ingannatore. Cioè, riconoscere il messaggio illecito, e mostrarlo all’utente che lo ha inserito come se fosse regolarmente stato inviato. Ma in realtà non inoltrarlo agli altri utenti. Dopo un po’, l’utente non trarrà beneficio dalla sua condotta fraudolenta e abbandonerà il sistema.

L’interfaccia cioè dovrebbe essere autorizzata ad ingannare gli utenti, se questo va a beneficio del sistema. Privilegiare la salute del gruppo rispetto a quella dei singoli, nei casi in cui questi possano danneggiare il gruppo. Sistemi del genere non sono perfetti, dice Spolsky, ma riducono notevolmente la percentuale di comportamenti dannosi.

Non buttare il bambino con l’acqua sporca

I metodi tradizionali dell’usabilità naturalmente non vanno gettati nel cestino, e Nielsen ha delle ragioni quando attacca alcune frivolezze “2.0”. Vi sono esempi di pattern d’interazione tipici e consolidati nei quali l’usabilità “efficientista” può chiaramente offrire importanti contributi. Ad esempio, nell’aiutare a ridisegnare la procedura di login ad un servizio. L’efficienza è ancora importante e tutti i social network potrebbero essere grandemente migliorati sotto molti aspetti.

Quello che però è bene ricordare è che l’usabilità da sola non è in grado di garantire il successo di un’applicazione. L’applicazione ha successo per un insieme, spesso imprevedibile, di ragioni. Ad esempio, perché risponde ad un bisogno sociale, latente o meno, e non vi sono alternative migliori disponibili.

Ne consegue che anche applicazioni poco usabili possono avere successo! Certo, questo avviene solo a certe condizioni. Ovvero, quando lo strumento offre altri evidenti benefici agli utilizzatori in assenza di alternative. In un mercato maturo, l’usabilità costituisce un fattore competitivo fra i prodotti. Ma sono le feature, le funzionalità disponibili, a decidere se il pubblico adotterà il prodotto.

Sebbene l’usabilità tradizionale, dunque, possa offrire importanti contributi, è necessario riconoscere che stiamo assistendo ad un cambio di impostazione nella progettazione delle applicazioni informatiche, che (oltre a molte altre cose già discusse in passato…) va verso una maggior socialità e una maggior ubiquità. Efficienza e soprattutto soddisfazione (che dipende dall’utilità del sistema e dalla sua piacevolezza) dovrebbero passare al centro degli studi e dei metodi dell’usabilità. Considerando in maniera crescente gli aspetti sociali.

Quali proposte di metodo per una “social usability”?

Spolsky nota, nel 2004, che una disciplina che metta al centro la socialità delle interfacce ancora non c’è. Quattro anni dopo non è cambiato molto, forse anche per la lentezza con cui il mondo dell’usabilità sta reagendo a questo cambio di paradigma. Tuttavia alcuni contributi ci sono, e vanno approfonditi.

Pirkka Hartikainen, dell’Università di Helsinki, per esempio (PDF, 668 KB), compie un’ottima analisi e arriva a suggerire, sulla base di alcune ricerche, delle proposte di metodo.

Design basato sui bisogni sociali

Invece di considerare “task” e “funzioni”, il livello di analisi dovrebbe partire dai concetti di “struttura sociale”, “comportamento” e “bisogni”. Ad esempio, costruire uno strumento di comunicazione portatile richiede analisi diverse a seconda che ci si rivolga ad un gruppo di adolescenti, o a dei malati di un ospedale che devono comunicare con i parenti attraverso dispositivi portatili dedicati.

Design per i comportamenti emergenti

Questo approccio parte dall’osservazione e l’analisi dei cosiddetti “comportamenti emergenti imprevisti” in gruppi e strutture sociali, per guidare successive iterazioni del design. I comportamenti emergenti non vengono considerati come “inevitabili” conseguenze o come dati immodificabili nel sistema, ma ci si chiede quali funzionalità del sistema stiano innescando questi comportamenti emergenti, e quali conoscenze dovrebbero essere applicate alle successive tornate di design.

Capire i limiti del multitasking

Le funzioni progettate su dispositivi portatili hanno conseguenze sociali impreviste, come si può notare da una conferenza nella quale i partecipanti sono intenti più a comunicare sul loro laptop che a seguire l’oratore. Simili problemi sono molto comuni in contesti lavorativi, quando sullo stesso computer un impiegato deve svolgere la sua normale attività, ma anche rispondere a dei messaggi in chat, alle email, e contemporaneamente rispondere al telefono d’ufficio e agli sms sul cellulare. Il multitasking cui siamo quotidianamente sottoposti è un’arma a doppio taglio e sono necessari progressi nella ricerca per comprendere a fondo i costi e i benefici di questa modalità di lavoro tanto diffusa.

Capire le differenze dei contesti individuali e sociali

Le funzioni che sono utili in contesti individuali possono portare a disagi in situazioni sociali. Gli esempi sono all’ordine del giorno. La suoneria del cellulare è perfetta per capire che qualcuno ci sta chiamando, ma è disastrosa in un cinema o in un teatro. La vibrazione e le modalità silenziose sono state introdotte proprio per questi contesti, e non avrebbero senso sui telefoni casalinghi.

Altri metodi sono proposti, per i quali si rimanda al paper originale. Aggiungo qui alcuni strumenti direttamente applicabili nello studio delle interfacce sociali, che secondo la mia esperienza potrebbero essere direttamente utilizzabili nella progettazione di applicazioni sociali.

Studiare i contesti sociali e le motivazioni dell’utente

Il contesto sociale e i comportamenti relativi di un utente possono essere studiati in almeno due modi:

  1. Attraverso studi di tipo etnologico, osservando sul campo le interazioni. Questo metodo appartiene tradizionalmente all’usabilità, ma viene poco utilizzato per la difficoltà di identificare target specifici di utenti. Tuttavia, per applicazioni rivolte a pubblici definiti come i teenager, vi è la possibilità di identificare una serie di rappresentanti tipici e invitarli a partecipare ad una ricerca sul campo, con diari di attività, interviste, resoconti, filmati. Si tratta di una tradizione poco presente in Italia, ma che offre la possibilità di importanti insight per capire come vengono usati gli oggetti nel contesto quotidiano
  2. Attraverso metodi di autoracconto o di espressione delle idee e delle motivazioni. Qui possono tornare in aiuto le tecniche di intervista, singole o in gruppo, e persino i focus group. Tuttavia, in tempi recenti in settori affini si sono sviluppate tecniche di progettazione partecipata che prevedono metodi differenti, strutturati su più livelli, di coinvolgimento e ascolto attivo dell’utenza, che prevedono tecniche di gruppo con moderatori esperti, raccolta di opinioni, valutazione delle opinioni (attraverso metodi come il Delphi, per esempio, ma anche con sistemi più informali).

Esperimenti controllati in rete

Infine, vi è un’ulteriore possibilità. Quella di studiare le dinamiche di rete ad un livello macro, attraverso analisi matematiche di comportamenti reali registrati con grandi moli di dati. Vi sono negli ultimi due anni esempi crescenti di questo tipo di ricerche. Ad esempio, quelle che hanno portato ad identificare una legge matematica in grado di spiegare il numero di click che gli utenti compiono su un sito e la distribuzione degli hit, cioè degli accessi alle diverse pagine (metodo alla base anche degli studi sull’information-foraging di cui abbiamo parlato discutendo dell’usabilità semantica).

Infine, la rete offre la possibilità di svolgere dei veri e propri esperimenti dal vivo, approntando versioni diverse delle interfacce e sottoponendole casualmente in maniera controllata a diversi utenti, valutando poi le variazioni nei pattern comportamentali.

Di alcune di queste ricerche parleremo nei prossimi articoli. Quel che emerge alla fine di questa discussione è che, per venire incontro alle mutate esigenze di progettazione di interfacce sociali e ubique, l’usabilità ha necessità di rinnovare non tanto i suoi strumenti concettuali (la definizione ISO 9241 è sufficientemente generale da valere anche in queste situazioni) ma i metodi usati. Alcuni dei metodi tradizionali possono ancora essere impiegati, ma devono essere integrati in un approccio che unisca l’osservazione dell’utente (livello micro) con la comprensione delle dinamiche sociali coinvolte (livello macro).

La comunità internazionale, o una parte di essa, ha iniziato da poco a riconoscere il problema, e stanno iniziando a nascere i primi tentativi di definire nuovi approcci. Continueremo a raccontarli e a seguirli nei prossimi mesi.

Usabilità e creatività

Il dibattito sull’usabilità negli ultimi mesi si è spesso
soffermato sul tema ‘Usabilità e Creatività’. In Italia
il sasso è stato lanciato da Franco "Bifo" Berardi sul
forum
di Mediamente.it
, e il thread (la conversazione che ne è conseguita)
ha dato vita addirittura ad un e-book scaricabile sullo stesso sito ma
leggibile solo con un software Microsoft…

Il sasso di Berardi metteva sostanzialmente in guardia sulla possibilità
che l’usabilità portasse ad un’omologazione delle pagine web, orientate
al solo profitto, tagliando fuori possibilità polisemantiche, estetiche
ambiguità e ricchezze comunicative non previste dai rigidi dettami
dell’usabilità nielseniana.

In seguito la discussione ha preso vita su varie liste di discussione,
e perfino qualche convegno è stato organizzato sul tema. Ho avuto
il piacere di partecipare ad uno di questi, alla presenza fra gli altri
dello stesso Bifo Berardi, che dal vivo ha notevolmente chiarito il suo
timore. Bifo teme che il seguire percorsi preconfezionati (le presunte
regolette dell’usabilità) porti il web a un impoverimento dell’esperienza
dell’utente. Di più: Bifo nega che sia corretto utilizzare il termine
utente e che il sito web si possa ridurre allo stato di servizio, per
quanto sui generis lo si voglia considerare.

Il web secondo Bifo è un ambiente, nel quale si vive a tutti gli
effetti, e all’interno del quale l’esperienza non deve essere in nessun
modo omologata. Il suo punto di vista denota la matrice di critica sociale
già ben evidente nei suoi ottimi libri e articoli, e in generale
nel suo pensiero.

Un tema politico

In altre occasioni, il tema non è stato a mio parere colto nel
pieno delle sue implicazioni, anche politiche. Perché di un tema
politico, infine, si tratta. Non si tratta, infatti, di definire in quale
ambito categoriale vogliamo inserire il sito web: se sia un servizio,
un ambiente, un luogo dell’esperienza, un semplice artefatto funzionale.
Il web può essere e diventare tutto questo e anche altro, per ora
non lo sappiamo. E’ vero che nel web vi è un potenziale di ‘liberazione
sociale’, perché consente a chi non ha voce di esprimersi (anche
se molto rimane da dire sul come queste voci possano alla fine trovare
un uditore…). Ma tutto ciò non ci dice nulla su un’altra questione:
il web, come qualunque oggetto, artefatto, ambiente che forma la nostra
realtà, è necessariamente un luogo che veicola senso. Significati,
punti di vista.

Questo accade sempre e comunque: sia che il web sia mero strumento funzionale,
sia che sia luogo di accadimento estetico, o di creazione dell’esperienza
dell’utente. Il punto è che qualunque pagina web non può
esimersi dal comunicare ‘cose’: significati, implicazioni estetiche, contenuti,
propensioni d’uso, punti di vista. Ed è pertanto artificiosa ogni
considerazione che miri a separare nell’oggetto sito un aspetto puramente
funzionale da uno puramente estetico, o anche solo formale.

Pensiamo alle pagine meno estetiche e creative che troviamo in rete:
quelle del sito di Nielsen, www.useit.com. Ebbene, possiamo dire che queste
pagine, spogliate dalle implicazioni estetiche, o meglio, da una volontà
estetica apparente, siano pura funzione? Siano puro strumento? Nielsen
lo pretenderebbe, forse. Ma non è così. Non può essere
così.

Quelle stesse pagine ci parlano anche di altro. Ci dicono che l’autore
non ritiene importante l’abbellimento (anche se, a prima vista non ci
dicono nulla sul perché l’autore non lo ritiene importante), che
la sua idea di mondo web (e la sua idea di navigatore web implicito, di
conseguenza) è quella di un raggruppamento di testi brevi e linkati,
suddivisi in due aree, che sono di dimensione uguale ma di priorità
diversa: quella gialla, che sta a sinistra, è la più importante
perché assume culturalmente (e dunque convenzionalmente) il significato
di punto di partenza della pagina, mentre quella di destra racchiude informazioni
la cui importanza non è molto, ma solo un po’ subordinata alle
altre. Non ci dice molto sulla categoria di informazioni che sta in quest’area:
per capirlo ci si aspetta che scorriamo le parole. Il sito ci dice che
nella visione di Nielsen non è molto importante il lato estetico,
ma non che la forma non esiste.

Forma e funzione non sono separati

Allo stesso modo, qualunque sito rivela in sè implicazioni
che riguardano la forma
, da un lato, e la pura estetica, dall’altro.
Non si tratta tanto, come si dice a volte, di conciliare forma e funzione:
è la stessa dialettica fra forma e funzione che non rende il problema
.
Su web possiamo chiaramente definire un aspetto funzionale pratico (navigazione,
ricerca di info, procedure diverse, fra cui quelle di acquisto), ma non
dobbiamo dimenticare che, trattandosi di un mezzo basato sul contenuto,
anche quest’ultimo ha una funzione. Veicolare concetti, ad esempio, che
sono ben staccati dalla funzionalità strumentale. Dunque la comunicazione
di concetti non operativi è una parte ineliminabile del sito web,
addirittura connaturata ad esso (a differenza, che so, di un martello,
che è quasi solo strumento operativo, e per il quale implicazioni
estetiche o considerazioni formali sono per lo meno estranee alla sua
natura, superflue, benché possibili).

Ridurre il web a mero utensile che rende disponibili contenuti non sposta
il problema: il web veicola significati, e parte di questi significati
non possono essere ridotti al concetto di uso. E dunque – ha ragione Bifo
– a quello di utente.

Più produttivo dovrebbe essere chiedersi quale ruolo abbia una
certa cura della forma e dell’estetica in diversi siti, e andare a risalire
ai significati, impliciti ed espliciti, consapevoli o no, che veicolano.
Il web è comunque un modo per formare esperienza, lo è in
ogni caso. Decidere consapevolmente come tentare di influire su questo
modo dipende da noi, dal progettista. Un sito che, nell’ansia di concentrarsi
su una comunicazione suggestiva e seduttiva oscurasse le possibilità
(delimitate da vincoli tencologici e cognitivi) di mettersi in relazione
d’uso con un ipotetico navigatore, avrebbe fallito parte dei suoi obiettivi.
Ma del resto, è legittimo che un sito occulti se stesso e parte
delle sue potenzialità, se questa è l’intenzione (motivata
da ragioni che rifiutano la funzionalità come logica di relazione,
ad esempio, e che non si aspettano risultati funzionali dal sito…).

Ne consegue che non c’è usabilità che si possa occupare
solo di aspetti meramente funzionali, operativi: essa sarebbe un’usabilità
monca, priva di ‘sensibilità’ strumentale, di capacità di
incidere a fondo sul progetto, sul prodotto, sulla relazione d’uso. Più
sensato porsi il problema della relazione fra aspetti orientati all’uso
funzionale e quelli orientati alla veicolazione di sensi altri. E’ da
notare che lo stesso Nielsen, in merito, compie in maniera silente la
stessa operazione: quando parla di regole per la stesura del contenuto,
per esempio; ma anche quando parla di semplici tagline (ovvero il breve
slogan che accompagna il logo su alcuni siti, di solito composto da una
semplice frase) teorizza un certo modo di veicolare un’informazione e
lo riconduce implicitamente alla necessità di limitarlo all’aspetto
funzionale o di privilegiare una sintetica chiarezza rispetto alla suggestione
di uno slogan che incuriosisce, che può creare una tensione,
ma non chiarisce.

In altre parole dire ‘articoli e consulenza sull’usabilità web’
ha un certo significato, mentre dire ‘il web a misura d’uomo’ ne ha un’altro.
Nel primo caso, si descrive pianamente un’attività (ed è
l’idea di comunicazione che ha Nielsen, in quanto facilitante per la comprensione
di un concetto operativo: cercare articoli, chiedere consulenza); nel
secondo caso si è meno informativi (si tratta di un sito che offre
cosa?…) ma si stabilisce uno slogan, una meta ideale, suscettibile di
venir modificata e ampliata man mano che l’utente utilizza, visita il
sito. Nel primo caso, il potenziale informativo della tagline non è
sostanzialmente modificabile dall’utente, che non deve fare un percorso
di scoperta e di ulteriore costruzione di senso: è tutto già
presente. Nel secondo caso, si esplicita una meta ideale, ma cosa questa
significhi in pratica (praticate l’usabilità, conoscetela, e qui
vi aiutiamo a farlo, perché significa avvicinare il web alle persone
– e dunque si dà un attributo valoriale, quasi etico all’espressione)
è chiaro solo dall’interazione successiva con il sito, che contribuisce
in seguito alla costruzione di un significato che si definisce e arricchisce
in itinere. Quale scelta è migliore? Bisognerebbe stabilire ‘migliore
rispetto a cosa’, a quali parametri di giudizio. Ma scegliere l’uno o
l’altro modo di presentare una comunicazione determina una scelta di campo
i cui significati non sono esplicitamente dichiarati e i cui effetti non
sono nemmeno univoci, ma che certamente ci sono.

Appare evidente allora che vi sono diversi modi di intendere l’usabilità,
come ve ne sono diversi di intendere la comunicazione, e che l’usabilità
è comunicazione.

Comunicare on-line non è come comunicare off-line

Ciò che l’usabilità sottolinea è che la comunicazione
on-line non si può limitare alla replica delle stesse tecniche
retoriche e persuasive dell’off-line, della pubblicità, dell’advertising,
della retorica testuale, della propaganda. Perché diverso è
non solo l’oggetto, ma il contesto d’uso. E invita a riflettere sui modi
attraverso i quali la comunicazione veicola le possibilità d’uso
(efficace, efficente) da un lato e quelli attraverso i quali determina
la possibilità di costruzione di senso (cos’è il mondo,
e cos’è il fruitore, essenzialmente) dall’altro. Questo senso dipende
da un’infinità di fattori, che non sono scollegati da quelli puramente
funzionali: non ne possono cioè prescindere.

Il dibattito fra usabilità e creatività pretende così
di separare artatamente aspetti che all’interno della costruzione di senso
che un essere cognitivo fa rispetto alla sua relazione con il mondo sono
inscindibili.

Eppure vi sono tutt’ora molti (improvvisati) specialisti ed esperti di
usabilità che sembrano non avvedersi di queste implicazioni, sembrano
non volere tener conto di tutti questi fattori, e sembrano non porsi affatto
il problema di quale ruolo comunicativo e quale relazione con il mondo
un artefatto, qualunque artefatto, incorpora in sè. Cioè
che idea implicita dà al suo visitatore della realtà, e
della relazione che intende stabilire con lui (e dunque anche di lui stesso:
del visitatore, cioè).

La progettazione di un sito deve consentire libertà all’utente
o deve incanalarlo verso percorsi predefiniti? Attraverso quali tecniche
è possibile (se è possibile) influenzare la costruzione
di senso del navigatore? Quali gradi di libertà ineliminabili esso
conserva? Sono tutti quesiti che nel web non possono essere delegati a
teorie puramente linguistiche o retoriche, nè funzionali, ma che
investono un’analisi del contesto e del contenuto molto più ampia.
Il quadro formativo di molti sedicenti esperti di usabilità non
sembra invece tenere in adeguato conto di tutte queste implicazioni, inscatolato
in una modellizzazione implicita dell’utente e del mondo che le scienze
cognitive portano inevitabilmente connaturata in sè, al punto talvolta
di non renderla evidente, e dunque osservabile, e discutibile, e criticabile.

L’usabilità tra il dire e il fare

I tempi cambiano. Due anni fa non era possibile nominare l'usabilità senza essere guardati un po' di traverso, come visionari provenienti da un altro pianeta. Marte, forse. Oggi non c'è azienda che non dichiari, almeno formalmente, la propria grande attenzione nei confronti dell'usabilità. Tutto bene, dunque? L'usabilità ha vinto la prima battaglia, come dice Nielsen?

Negli Stati Uniti, forse. In Italia, non sarei così ottimista. Non c'è dubbio che vi sia un grande interesse, prima assente, per le tematiche dell'usabilità. Tuttavia, per motivi anche comprensibili, l'usabilità rimane in gran parte una disciplina sconosciuta o (quando va bene) fraintesa. Alcune aziende hanno la tendenza a formare – a volte soltanto attraverso letture – all'interno del proprio staff una persona che ha sempre svolto un altro ruolo, affinchè diventi il referente per l'usabilità. Non c'è nulla di male, anzi: è una pratica positiva. Purtroppo, però, spesso questa persona non ha alcuna formazione metodologica, e finisce per dare dell'usabilità la visione più compatibile possibile tra ciò che legge e la sua formazione di base, sia essa legata al design, al marketing, o alla produzione di codice. Queste tre aree di competenza sono tutte relate in qualche modo all'usabilità, ma non sono l'usabilità.

Inoltre una persona interna all'azienda è inevitabilmente sottoposta a tensioni e conflitti fra reparti e ruoli. Di conseguenza, potrebbe trovarsi a dover mediare fra ciò che dell'usabilità ha imparato e il minor danno possibile per la sua posizione.

D'altra parte, mancano i corsi qualificati che possano colmare le lacune ed evitare che dell'usabilità passi una visione parziale o distorta. Le università si occupano di usabilità web da poco, e ci vorrà ancora un po' di tempo per colmare il fisiologico gap formativo e culturale esistente in Italia. Nel frattempo, l'usabilità è una disciplina ancora debole, in balìa delle correnti e delle distorsioni che qualcuno, involontariamente, può operare.

"Lasciamolo fare al grafico…"

Uno dei fraintendimenti più diffusi, ad esempio, è che l'usabilità non sia che un elenco di regolette da applicare in fase di design – e quindi se ne può occupare benissimo il graphic designer, che spesso già vede (a causa di altro un gap formativo) l'usabilità come il fumo negli occhi…
Ne abbiamo già parlato in un articolo, e vi rimandiamo a quello per approfondire ciò che pensiamo dei decaloghi, di usabilità e non. Ciò che ci interessa dire qui è che le regole sono estremamente utili come linee guida, ma vanno applicate con cura e flessibilità ai casi specifici, e in ogni caso dovrebbero essere considerate in fase di progettazione precoce, non certo in quella di graphic design! In fase di design, spesso, molte scelte sono già state fatte, e non si può che rivestirle con un costume più o meno elegante o appariscente. A volte è meglio di niente (e 'poco' in questo campo è sempre molto meglio di 'niente'), ma un intervento serio di usabilità è un'altra cosa: va operato fin dalle fasi precoci del progetto, a partire dalla definizione degli obiettivi, dei contenuti e dell'architettura informativa.

Compatibilità tecnica: "segui le mie indicazioni e tutto andrà bene"

Un'altra delle convinzioni errate è che l'usabilità sia una questione di compatibilità (o di accessibilità…). Capita di vedere siti che, alla voce 'usability info', presentano la configurazione ideale che deve avere il computer dell'utente per visualizzare correttamente il sito! Risoluzione, browser, plug-in, e via dicendo…
Spero di non dover convincere i lettori di Usabile di quanto questa visione sia lontana, se non addirittura contraria, ad una reale usabilità. L'usabilità non può permettersi di dire: utente, segui queste regole e andrà tutto ok, ma deve, al contrario, capire quali sono le regole implicite dell'utente, e adeguarvisi per poter comunicare con lui!
Non dimentichiamoci che la maggior parte degli utenti non sa nemmeno con quale browser sta viaggiando. Non parliamo dei plug-in o della risoluzione, che solitamente vengono mantenuti nella configurazione di default. E continuamente, quando chiedo a qualche conoscente (che naviga in internet, ma si occupa d'altro) se utilizzi un Mac o un PC, mi sento rispondere, con un senso di vago smarrimento appena dissimulato, "Mah, per lo più uso Word…".

"Chiedi e (non) ti sarà detto…"

Ma l'ultima e forse più pericolosa idea errata sull'usabilità è che si possa 'chiedere direttamente all'utente'. E che, quindi, si possa valutare rispondendo ad una semplice serie di domandine del tipo si/no. Ovviamente l'utente non ha alcuna conoscenza di cosa gli complica o meno la vita, in relazione ad un sito che magari (quando va bene) ha appena visto!
La verità è che l'usabilità la si capisce soltanto osservando gli utenti alle prese con il sito (lo ripeteremo fino alla nausea)! L'osservazione diretta non può in nessun caso essere sostituita da una serie di domande o da un'intervista. Per il semplice motivo che le persone dicono una cosa, ma ne fanno un'altra.
Non per cattiveria, ma perché a livello cognitivo la conoscenza su una procedura si forma dopo il suo utilizzo. L'utilizzo è l'unico indicatore reale di usabilità. Solo utilizzando un sito la persona compie gli atti che ci interessano, ed al limite, poi, esprime considerazioni che possiamo collocare in un quadro complessivo sensato.

Che le dichiarazioni degli utenti non corrispondano ai comportamenti è cosa nota alle discipline psicosociali. E' anche per questo che in pubblicità è difficile stabilire un legame ferreo fra l'atteggiamento verso un prodotto e l'effettivo comportamento d'acquisto. Allo stesso modo, valutare un sito semplicemente mostrandone l'interfaccia e chiedendo un parere, non ci dice nulla sulla sua usabilità, perché la persona che stiamo interpellando non ha usato il sito e dirà quello che crede ci faccia piacere sentire, o quello che pensa direbbe una persona intelligente, o si concentrerà su qualche dettaglio che colpisce la sua attenzione e che potrebbe non avere alcun ruolo durante l'esecuzione di un compito preciso.

Confrontare le risposte con le prestazioni

Le dichiarazioni degli utenti sono tuttavia utili in alcuni casi. Ad esempio, dopo aver eseguito una serie di compiti sul sito, può essere interessante indagare sulle difficoltà incontrate e sulle aspettative. Tuttavia, è bene non fidarsi ciecamente nemmeno di queste dichiarazioni. I motivi sono diversi:

  • nel caso di suggerimenti spontanei, non è detto che ciò che l'utente vorrebbe sia ciò che effettivamente gli serve. Spesso le indicazioni vengono da desideri dell'utente, ma questi desideri attengono soprattutto alla sfera delle sue aspirazioni, piuttosto che a quella delle esigenze d'uso concrete.
  • quando si tratta di spiegare un errore o una difficoltà, entra in gioco un meccanismo di difesa che può portare alla razionalizzazione dell'errore.
  • Più banalmente, può capitare che il resoconto dell'errore sia semplicemente viziato da un difetto di memoria. La memoria umana non è soltanto fallace: è ricostruttiva. Modifica cioè i ricordi per adattarli ad una spiegazione del mondo che nel frattempo ci siamo costruiti.

Allo stesso modo, diventa chiaro che interviste e questionari andrebbero somministrati solo in casi particolari, dopo l'utilizzo del sito, e andrebbero confrontati con le prestazioni ottenute per verificarne la correlazione. Nielsen trova ad esempio una correlazione di 0.44 fra le preferenze degli utenti e il loro successo nelle prestazioni. Ma, sebbene sia un coefficiente discreto, 0.44 significa che tra le preferenze espresse vi è una grossa componente che non è correlata alle prestazioni! Il che può essere spiegato in molti modi, ma va certamente indagato.
Nei miei test ho rilevato ad esempio che il giudizio sulla gradevolezza grafica di un sito da parte dei soggetti può essere nettamente positivo anche quando le loro prestazioni sono state estremamente scadenti! Addirittura, vi sono casi in cui non vi è piena consapevolezza di quanto scadente sia stata la prestazione (e quindi non sono del tutto affidabili nemmeno le dichiarazioni che seguono, se non come indicatori della forza della mancata comprensione). Tale risultato è coerente con altri presenti in letteratura (uno famoso è la ricerca di Jared Spool, risalente ormai al 97: sembra che le cose non siano molto cambiate, nonostante il miglioramento dell'aspetto generale dei siti).
E' necessario dunque scindere i due aspetti: quello prestazionale e il giudizio estetico. I due possono anche andare di pari passo, ma non lo fanno necessariamente. L'uno non è dunque un buon indicatore dell'altro. Ed è anche per questo che l'usabilità non può essere delegata ai graphic designer: perché non è di loro competenza.

A seguito di queste considerazioni, diventa anche evidente che strumenti di analisi degli atteggiamenti e delle opinioni come i focus group, di cui troppo spesso si sente ancora parlare, sono completamente inadeguati in un buon piano di ricerca di usabilità. Sono ottimi per identificare aree di interesse in un contesto di interazione di gruppo, delle quali tenere conto quando si deve preparare o posizionare un prodotto, e quindi anche un sito. Ma il successo di un sito dipenderà solo in parte da questo posizionamento. Esso dipenderà in misura addirittura schiacciante dalla capacità del sito di soddisfare le esigenze d'uso dell'utenza. Queste esigenze potrebbero essere rimaste completamente latenti in un focus group, anche condotto benissimo.

Test e analisi

I test con soggetti sono dunque l'unico strumento realmente valido per valutare l'usabilità? Sì e no. I test sono indubbiamente insostituibili. Ma quello che ci preme sottolineare qui è che, se non si possono fare i test, è meglio affidarsi alla valutazione di un esperto, che ha competenze precise di usabilità e sa cosa analizzare, piuttosto che chiedere dei semplici pareri a persone che non hanno utilizzato il sito.

Dei buoni esperti di usabilità (preferibilmente specializzati sul web, che è un dominio molto diverso da quello software) possono contribuire fortemente al miglioramento di un sito anche solo attraverso una buona analisi euristica, perché sovente le prime versioni delle interfacce hanno talmente tanti problemi, che sarebbe un peccato bruciare a quel punto dei soggetti che potrebbero tornare preziosi in un secondo momento. Ma è appunto solo attraverso l'osservazione strutturata dell'interazione fra sito e utente che si traggono informazioni realmente decisive e puntuali dagli utenti.

La piena maturità dell'usabilità in Italia si avrà soltanto quando le aziende capiranno la differenza che c'è fra informarsi semplicemente sull'usabilità e farla in concreto… e soprattutto farla bene! Solo allora i siti prodotti mostreranno decisi miglioramenti e l'esperienza dell'utente potrà essere un po' più soddisfacente come da tutti auspicato.