Usabilità, progettazione partecipata e user-centred design

Ci sono due principali gruppi di metodi per ottenere siti usabili, adeguati alle attese dell’utenza.
Il primo considera l’usabilità come una proprietà dell’interfaccia e prescrive le cosiddette buone pratiche, o regole di design usabile (vedi cap. 3 del libro Ecologia dei siti web).

Secondo questa filosofia, l’usabilità è data da cose come i link blu, i testi di una certa grandezza, i colori appropriati, il layout ordinato, i feedback che seguono certe regole, e così via. Poiché riguarda la modifica delle caratteristiche dell’interfaccia, questa filosofia ha alcuni pregi:

  1. E’ ben compresa da coloro che producono l’interfaccia: grafici, html-isti, programmatori, i quali devono solo seguire le regole. Magari sbuffando, ma tutto sommato con difficoltà relativa, una volta decise le regole.
  2. E’ facile da comunicare. Consistendo in regole e check-list, questo gruppo di metodi si adatta molto bene ai percorsi formativi e di aggiornamento dei professionisti.
  3. Ha un basso impatto sulle procedure aziendali. Non è necessario modificare quasi nulla del tradizionale modo di lavorare. Dirigenti e capi-progetto devono solo verificare che i membri del loro staff seguano le regole. Il ciclo di progetto rimane invariato.

Accanto ai pregi, questa filosofia ha anche dei limiti:

  1. Non vi è alcuna garanzia che seguire queste regole abbia un impatto reale sull’esperienza utente, perché questo impatto non è misurabile direttamente.
  2. Non c’è una reale priorità fra le regole di design, e dunque non si sa quali sono più importanti di altre.
  3. Non c’è modo di sapere se alcune di queste regole sono sbagliate, in generale o almeno nello specifico progetto, perché l’applicazione è per così dire “cieca”.
  4. Se qualcuno decide che una certa regola, in quello specifico progetto, non vada applicata per economia o per qualunque altro motivo, non c’è modo di capire se la scelta è giusta o sbagliata.
  5. Tutti gli aspetti che non sono esplicitamente inclusi nelle regole vengono ignorati. Seguire check-list dona infatti parte l’illusione di aver fatto tutto ciò che era necessario, e focalizza su quegli aspetti rendendo meno probabile pensare agli altri.
  6. L’applicazione delle regole non riesce a incidere su eventuali errori di progettazione della comunicazione o del concept, che sono quelli davvero critici.
  7. In generale, poiché riguardano i livelli più bassi della catena produttiva, queste regole non vengono realmente vissute come componenti vitali del prodotto da parte di dirigenti e capi-progetto.

Questo modo di produrre interfacce usabili è utile, ma non è in alcun modo sufficiente. E’ meglio utilizzarlo, ma è sub-ottimale: non risolve problemi centrali di adeguatezza del prodotto.

Oltre il design basato su regole: il design centrato sulle esigenze degli utenti

Il secondo gruppo di metodi prevede invece che i siti usabili si facciano cambiando il processo produttivo, e centrandolo sull’identificazione, l’analisi e il confronto con le esigenze dell’utenza reale. Secondo questo gruppo di metodi, o filosofia progettuale, si devono attuare processi di design partecipato, di design centrato sull’utente (user centred design, UCD), e di design iterato. Tutte varianti, implementazioni possibili di un unico approccio, quello che coinvolge e tiene attivamente in considerazione le istanze degli utenti reali. Si veda il capitolo 2 del libro Ecologia dei siti web per una panoramica su alcuni di questi metodi.

In linea generale, questo approccio si basa su un’idea semplice: ogni idea, ogni progetto, ogni prodotto, va valutato con chi lo deve usare. A seconda che si valuti l’idea, il progetto, o un’implementazione concreta del prodotto (cioè a seconda che valutiamo più o meno precocemente durante il ciclo di progetto), utilizzeremo metodi diversi di coinvolgimento dell’utente. Il risultato della valutazione deve portare ad una modifica dell’idea, del progetto o del prodotto originario. Deve cioè essere previsto che l’output di un ciclo di valutazione costituisca parte dell’input del ciclo successivo, secondo uno schema del genere:

Gli strumenti del design partecipato

Gli strumenti utilizzati da queste filosofie progettuali sono molti e diversi, e si affiancano ai normali strumenti di produzione/progettazione, arricchendoli e influenzandoli. Alcuni di essi sono i seguenti:

  • Analisi dei requisiti
  • Interviste, questionari
  • Focus group (per la fase di identificazione dei bisogni e dei desiderata)
  • Workshop fra stakeholder
  • Riunioni partecipate
  • Osservazioni sul campo
  • Test di usabilità sul prodotto o sui prototipi
  • Scenari e persone
  • Card-sorting e free listing
  • …e altre

I risultati di questi interventi consentono la produzion di deliveries, cioè di documenti progettuali che fissano le regole e i vincoli del successivo ciclo di progetto:

  • linee-guida (di design o di contenuti)
  • check-list
  • guide di stile
  • thesauri e vocabolari controllati
  • concept proposition
  • mockup e wireframe
  • …e altri.

I pregi

Questa filosofia di progetto centrato sull’utente ha diversi pregi:

  1. Mette alla prova del gradimento degli utenti qualunque idea progettuale: sia quelle di comunicazione, sia quelle implementative. Si applica cioè in qualunque fase, anche in assenza di un prodotto o di un bozzetto
  2. Riesce a identificare strategie comunicative per il progetto.
  3. Riesce a stabilire priorità fra i diversi aspetti del progetto, identificandone i più importanti per l’utenza ed economizzando così il processo.
  4. E’ compatibile con la filosofia basata su regole e linee guida vista sopra, perché si muove a livelli differenti, ma la integra, consentendo di stabilire se e quando un certo insieme di regole si applica o non si applica allo specifico progetto.
  5. Fissa i criteri con cui valutare il progetto e la sua efficacia. Le valutazioni possono essere ripetute in vari momenti e fornire un’attendibile monitoraggio del successo del progetto.
  6. E’ economica. Esistono diversi studi riguardo la maggior convenienza di procedure user-centred rispetto ai processi tradizionali.

In sostanza, questa filosofia è quella che, integrandosi anche con quella basata su linee guida, consente di produrre prodotti usabili, in maniera misurabile e valutabile nel tempo, in tempi e con costi minori o uguali, e con benefici maggiori.

Perché questa filosofia non viene seguita?

Se questo è vero, perché questo modo di produrre i siti non è la norma? Le ragioni sono essenzialmente culturali.

  1. Questa filosofia, a differenza della precedente, incide infatti sulla catena di comando del progetto, ridisegnandola. Non è soltanto il grafico o il programmatore che possono trovarsi a dover modificare il proprio lavoro, ma anche il project-manager, il responsabile della comunicazione, e perfino dell’idea: dunque persino il cliente, in alcuni casi!
    Il confronto con gli utenti può infatti far emergere una discrepanza fra il modo di percepire il sito/la comunicazione/il servizio della popolazione di utenti rispetto a quella dei committenti.

    Evidentemente, in strutture rigidamente organizzate, l’eventualità che le decisioni di un capo-progetto possano essere modificate dopo una valutazione partecipata rischia di avere conseguenze sulla sua credibilità, specialmente se i rapporti interni non sono buoni. Questo si evita in un modo molto semplice: modificando il ruolo del capo-progetto, che diventa non più un professionista che impone le scelte, ma che favorisce la scoperta delle scelte migliori, ed è il garante di questo processo di scoperta. In questo modo è salvo il suo ruolo gerarchico, ma ne sono ridisegnati gli obiettivi.

  2. Inoltre questo approccio è non-manipolatorio: l’opposto di molti progetti tradizionali. Se alcuni di essi si pongono l’obiettivo di influenzare il comportamento e le opinioni degli utenti, questa filosofia progettuale attua la strategia opposta: cerca di andare alla radice di quel che pensano e di cosa hanno bisogno gli utenti, in modo da trovare un terreno di incontro fra chi offre il servizio e l’utente.
  3. La terza e decisiva ragione per cui questa filosofia è minoritaria è perché non è quella tradizionalmente insegnata nelle scuole di management. Nè a livello di obiettivi, né a livello di metodi di gestione. Come è possibile? Da dove nasce allora questa filosofia, se non dal management?

Dal management tradizionale alla partecipazione

C’è da considerare, a grandissime linee (e mi scuso per la semplificazione), che, nonostante le enormi evoluzioni degli ultimi decenni, la cultura manageriale nasce in ambito produttivo, dove la produzione prima di beni-prodotto, e poi anche di servizi (fino alla ridefinizione stessa del confine fra prodotti e servizi), mira a ottimizzare il rapporto costi/benefici in uno scambio di mercato regolato dalla legge della domanda e dell’offerta. Si tratta cioè di progettare la produzione di beni e servizi che vengono venduti o offerti sul mercato, ad un certo costo. I parametri economici sono dunque gli unici presi in considerazione, e la contabilità dei ricavi è quella che, sostanzialmente, regola il tutto.

Beni prima e servizi poi nascono come prodotti altamente standardizzati, uguali a se stessi. Nel tempo vengono introdotti aspetti di personalizzazione, ma anche questi devono venir contabilizzati ed entro certi limiti standardizzati. La tradizionale cultura manageriale nasce e cresce in questo contesto, dove l’utente è un acquirente di un bene o di un servizio.

I prodotti interattivi e i siti sono prodotti di tipo differente. Essi infatti solo in alcuni casi e solo in un certo senso sono beni o servizi che vanno acquistati. Sono molto di più prodotti che devono facilitare relazioni. Attraverso la mediazione informatica, certo, ma sempre di relazioni si tratta. In queste relazioni la componente di scambio economico non è più centrale, non è l’obiettivo e il motore della produzione. Il sito oramai è uno strumento che rientra in una strategia di comunicazione più generale. Non è nemmeno uno strumento simile alle campagne pubblicitarie, perché quelle si basano sulla conquista di attenzione per instaurare una relazione, mentre il sito si basa sulla coltivazione della relazione fin dall’inizio, posto che l’attenzione, nel momento in cui un utente arriva su un sito, è già conquistata.

E’ più un luogo dove l’utente passa, ritorna, a volte fa alcune cose, a volte ne fa altre, e complessivamente l’obiettivo è quello di metterlo a suo agio, farlo trovar bene. Ad un certo punto della relazione, può aver vita un rapporto commerciale, ma non è detto, non è necessario. Altre volte la relazione genera soltanto una crescita di reputazione, che ha effetti benefici in maniere diverse dal tradizionale ciclo di acquisto.

Il caso dei siti pubblici

Nel caso dei siti pubblici, poi, ciò è ancora più evidente. Lì la relazione – alcuni auspicano la partecipazione – è assolutamente al centro dell’attenzione del sito. Niente deve essere venduto. Ecco che la tradizionale cultura manageriale, in questo contesto, non è adatta e adeguata alla produzione di prodotti che generino, favoriscano, coltivino positivamente relazioni, fra le cui conseguenze ci possa essere (ma non necessariamente c’è) uno scambio economico.

I siti sono questo, e in tale contesto, è abbastanza ovvio che il tradizionale modo di progettarli risulti troppo rigido, slegato dalla partecipazione reale dell’utenza, che invece è un processo fondamentale.

Non a caso c’è un forte parallelo fra la progettazione centrata sull’utente e le tecniche di progettazione partecipata nell’ambito delle politiche pubbliche. Esistono direttive europee che obbligano gli enti locali a utilizzare metodi partecipati nella progettazione di interventi pubblici. Lo stesso dovrebbero fare per la progettazione di strumenti di relazione come i siti web. Le linee-guida di codice o di grafica sono evidentemente insufficienti.

Come introdurre il design partecipato nel ciclo di progetto

Per costruire siti usabili è necessario orientare all’utente l’intero ciclo di progettazione. Già Landauer ha dimostrato i benefici di questa metodologia. Per favorire questo cambio culturale è necessario puntare sulla formazione non solo dei grafici e dei programmatori, ma anche dei dirigenti e dei responsabili, sia di enti pubblici che di aziende private.

Il cambiamento è culturale. Per i siti pubblici, questo può essere favorito dall’approvazione di norme che prevedano standard di processo (e non più solo di prodotto, come purtroppo avviene ora) nella progettazione di siti pubblici. Ma non è possibile attendere l’approvazione di leggi: l’unico modo per contribuire alla costruzione di siti che davvero siano uno strumento utile, capace di creare relazioni virtuose, con l’utenza, è iniziare a implementare fin da ora nel proprio processo di progettazione metodi e tecniche di user centred-design, coinvolgendo sia i dirigenti, sia i tecnici, sia i comunicatori in un processo partecipativo che ha benefici sul prodotto, ma anche sulle relazioni interne dei gruppi di lavoro.

E’ necessario iniziare: solo stabilendo delle esperienze pilota, sarà possibile generare un movimento di interesse in questo settore e arrivare ad una sua regolamentazione virtuosa.