NormaNielsenGroup ha recentemente dedicato un articolo alla attention economy, riconoscendone l’importanza per designer e utenti.
Forse il primo a parlare dell’attenzione umana come risorsa limitata che viene “consumata” dalla ricchezza delle fonti informative disponibili nel mondo è Herbert A. Simon, psicologo della Carnegie Mellon University, in un articolo addirittura del 1971.
L’articolo di NNGroup ha, al solito, il merito di semplificare. Online (e non solo online) esistono molte risorse gratuite che devono competere per il nostro tempo e la nostra attenzione. Io aggiungerei anche per i nostri dati, che spesso vengono raccolti, aggregati, e talvolta ricondivisi con altre aziende.
Tattiche con poco tatto
Questa necessità ha diffuso una serie di tattiche per mantenere l’attenzione e il tempo dell’utente su un sito o un’app. Non è una novità: anche le vecchie home page piene zeppe di contenuti e di banner, per esempio, erano un modo per sperare che almeno qualcuno di quei contenuti attirasse la nostra attenzione, e noi cliccassimo.
Oggi le tattiche sono rivolte, ad esempio, a mantenere il tempo di visualizzazione dei video, facendo partire in automatico il video successivo senza fornire modi per bloccarlo.
Altri modi sono l’offerta di sconti, di download gratuito, e naturalmente, su un piano più sottile ma non meno efficace, l’uso di microcontent, cioè di brevi testi usati come titoli o lanci sui social, pensati per attirare la nostra attenzione e curiosità. Questa è di gran lunga la tattica più usata, benché l’articolo di NNgroup non la menzioni. La tendenza a trovare formule verbali che “funzionano” può essere positiva, perché sintetizza l’utilità immediata di un contenuto (come negli esempi qui elencati), ma può anche arrivare ad effetti perversi, perché inducono al click senza che il contenuto rispetti o soddisfi la promessa del titolo, o semplicemente suscitando una curiosità morbosa che in partenza non avevamo e che di fatto non ci interessa poi molto.
Inoltre, come dice l’articolo, le persone adattano il proprio comportamento alle tattiche fraudolente, il che implica che queste devono sempre essere aggiornate.
Bersagli mobili
Da una parte questo “adattamento” offre delle speranze, dall’altra però ci ricorda che siamo dei bersagli mobili. Quello che l’articolo non sottolinea abbastanza, a mio parere, è l’enorme problema che queste tattiche pongono dal punto di vista etico a chi si occupa (o vorrebbe mettere in cima ai propri obiettivi) di usabilità, e in generale di mettere l’utente al centro del proprio lavoro. Il fatto che di alcune di queste tattiche gli utenti si lamentino o che il loro comportamento si adatti per evitarli e richieda di escogitare nuovi modi per attirare l’attenzione, pone un problema al designer. Stiamo progettando in un modo gradito all’utente, o solo gradito al modello di business?
E che fare quando il modello di business (tutto gratis, attirare l’attenzione per catturare tempo e dati da rivendere) non è nell’interesse dell’utente, senza che questo esplicitamente ce lo dica? È ancora possibile fare i designer ed essere etici, quando le indicazioni di business sono queste?
L’articolo, frettolosamente e ottimisticamente, conclude che, sì, si stanno diffondendo modelli a pagamento invece che gratuiti, all’interno dei quali queste tattiche possono essere evitate (ma lo saranno? E non è un nuovo modo per creare un divide fra have e have-nots?). O che Apple ad esempio ha recentemente accorpato le notifiche per presentarle a blocchi in intervalli di tempo predefiniti, invece che in tempo reale. O che ci rende consapevoli del tempo di utilizzo del dispositivo. E che quindi, in modi come questi, i designer possono contribuire a bilanciare meglio le esigenze dell’attention economy con il rispetto dell’utente.
Ma scelte di questo tipo sono davvero appannaggio del designer, o non sono forse strategie delle aziende per differenziare le fonti di entrate o per distinguersi e sembrare più rispettose della propria clientela rispetto alle altre?