Cosa ci insegna una ricerca Reuters sulle fake news che i giornali italiani non hanno capito

Ha generato poca enfasi, e quasi sempre partigiana (a parte il tentativo più equilibrato di Valigia Blu), la ricerca di Reuters Institute for Study of Journalism sulle Fake News.

La ricerca è scaricabile qui, in una pagina dove si anticipano per punti i principali risultati. I giornali e i siti indipendenti che l’hanno ripresa titolano più o meno:

“Le fake news raggiungono (solo) il 3% di italiani online”

Ehm, no. Quella è solo la portata, o reach, o percentuale di navigatori raggiunta, delle testate classificate come generatrici di notizie esplicitamente false.

La stessa pagina che presenta la ricerca, infatti, nota che c’è qualcosa che non va. Ed è il numero di interazioni sui social media che le fake news ottengono. Pur partendo da un reach così basso.

Le peculiarità delle news “fake”

Ed è proprio questo il fatto rilevante. Infatti:

  • È del tutto logico che siti privi di reputazione, nati magari in periodi di campagna elettorale solo per alimentare notizie falsate abbiano un reach basso. Siti come metogiornale.it sono del tutto sconosciuti, rispetto a repubblica.it! Non ci aspetteremo che la gente li visiti in quantità paragonabile? Quello che non è logico è che abbiano una circolazione social così alta!
  • Se non ci fossero i social media, questi siti non esisterebbero. Infatti il modo in cui i contenuti fasulli vengono condivisi non prevede affatto che le persone leggano gli articoli! Questo perché puntano esclusivamente sulla condivisione social, dove a raggiungere i lettori sono spesso solo il titolo e l’immagine. Diverse ricerche segnalano che spesso mettiamo like o condividiamo notizie sui social senza nemmeno averci cliccato. Le fake news capitalizzano su questa tendenza, non sul reach delle fonti originali1!

A chi dice che le fake news non esistono, e che tutti i media disinformano, si può dunque rispondere che, se in generale può essere vero, è diverso il modo e i limiti all’interno dei quali gli outlet “fake” lo fanno.

I siti che la ricerca classifica come “fake” a volte non sono nemmeno testate giornalistiche, e talvolta non sono nemmeno registrati nel Paese nella cui lingua operano. I siti di giornali invece, oltre a essere testate giornalistiche, hanno di solito una storia, devono anche vendere copie cartacee o abbonamenti digitali, operano all’interno di un pur migliorabile quadro deontologico, e rispondono di ciò che scrivono. Le loro manipolazioni e falsificazioni devono dunque essere prodotte attraverso limiti maggiori, e, piuttosto che scrivere notizie apertamente false, si prediligono artifici retorici, framing, allusioni, ecc (anche se purtroppo non mancano casi di bufale vere e proprie).

Ai siti di fake news può bastare un buon titolo rigorosamente fasullo e una strategia social2.

Le fake news che sfruttano i social sono qualitativamente diverse da quelle dei media tradizionali

Una obiezione possibile è che le condivisioni le cercano e le ottengono tutti, anche i siti tradizionali. È vero, ma questi grafici dovrebbero chiarire che si tratta un meccanismo sfruttato particolarmente bene dalle fonti “fake”:

Reach dei siti italiani considerati da Reuters
Interazioni Facebook degli stessi siti considerati
I due grafici, tratti dalla ricerca Reuters, confrontano il reach mensile dei siti considerati (quelli classificati come fonti di fake news sono in blu scuro, nella “coda lunga”) in alto, e le loro interazioni Facebook, in basso. Già questo confronto mostra come l’interazione di alcuni siti che non hanno quasi reach sul proprio sito sia molto più alta sul social, superando in particolare le interazioni di Rainews.
Potete aprire le immagini in un’altra scheda per poterle leggere con maggior facilità

Letta così, dunque la ricerca è molto più utile, perché ci dice qualcosa dei meccanismi comportamentali che senza i social media non esisterebbero, o almeno non su questa scala.

Può questo fenomeno aiutare a definire meglio diverse tipologie di fake news? Non da solo, ma può probabilmente aiutare a circoscrivere meglio il fenomeno, aiutando così anche a evitare normative censorie (come quella contro cui si stanno mobilitando attivisti per i diritti umani in Malesia, per esempio) prodotte magari proprio sfruttando la confusione sul tema, ma con ben altri scopi.

L’eterna partita fra Francia e Italia

Semmai, la seconda notizia sorprendente è che le interazioni delle false notizie sui social è maggiore in Francia di quanto lo sia stata in Italia, dove hanno superato solo le interazioni della testata RaiNews. Dunque, siamo un popolo meno sensibile alle fake news dei francesi?

Le interazioni social dei siti francesi di news e fake news
Le interazioni social dei siti di fake news francesi superano cumulativamente di gran lunga quelle dei siti di news francesi. Il confronto è con la seconda immagine italiana vista sopra. Ed è abbastanza impressionante, a dirla tutta.

Comunque guardando i dati e senza altre considerazioni non emerge un’immagine di popolazione italiana particolarmente “boccalona”. Anzi. Ma una specificità di funzionamento di questo genere di false notizie sì!

Direzioni di ricerca future

Quello che i dati non ci dicono è perché queste notizie generano maggiori interazioni. È probabile non dipenda da un unico fattore: non basta il titolo civetta o la presenza di una persona dedicata a gestire una strategia social. Le persone dedicate le hanno tutti (be’, forse non a Rainews…), le capacità anche, eppure questo genere di notizie viene condivisa meglio: capire quali aspetti generano questa maggior condivisione è uno degli obiettivi della ricerca futura.

Ma è certo che il reach non è la metrica migliore per dire che le fake news “non hanno impatto”. Non sono mai state pensate per quello.

1 Alcune di queste fonti non sono nemmeno testate giornalistiche!

2 Il Consiglio d’Europa propone di parlare non di fake news ma di un fenomeno più sfaccettato di information disorder (qui riassunto da Scienza in Rete). A me questo approccio spaventa di più, perché mette assieme appunto fenomeni diversi, che andrebbero invece distinti ed eventualmente normati per quello che sono, evitando di confonderli. Quanto meno userei un nome specifico per le notizie deliberatamente false e da fonti che non rispondono giornalisticamente di quanto scritto e che riescono a suscitare più attenzione di quanta ne generino le fonti originali attraverso il circuito dei social media, appunto.

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