Perché Facebook socializza i costi e privatizza i guadagni: commento a un articolo di Cory Doctorow

Di recente un articolo di Cory Doctorow, scrittore di fantascienza, ricercatore esperto e molto noto sui temi delle nuove tecnologie, ha pubblicato un articolo che a mio parere chiude definitivamente il dibattito sulle cosiddette fake news, e lo riorienta in modo più opportuno.

L’articolo è stato tradotto qui da Paolo Attivissimo, quindi potete scegliere fra l’originale e la traduzione italiana: non ci sono scuse, leggetelo.

In sintesi provo a dire, con qualche divagazione mia, cosa mi ha convinto dell’articolo:

  1. Anzitutto, e finalmente, qualcuno prende sul serio il fenomeno delle fake news per quello che è. Pur rispettando le articolate conclusioni del Consiglio d’Europa sull’Information Disorder, ovvero sull’analisi ultracomplessa di tutte le disfunzioni informative nel mercato dei media, tradizionali e non, le fake news sono un fenomeno peculiare e reale, come i dati dimostrano, a volerli leggere. Ho provato a dirlo qui, e lo ripeto: si tratta di siti nati apposta per diffondere notizie false, in particolare in corrispondenza di eventi specifici (elezioni, referendum), che non sono interessati al reach né alla qualità giornalistica e che non potrebbero esistere senza la diffusione mirata garantita da un’economica strategia social.
  2. Secondo, riconosce che il ruolo dei social (e Facebook, per dimensione ma anche, come dice Doctorow, per altre colpe specifiche) è determinante. Nel mondo dei media tradizionali, infatti, per mettere insieme un giornale e orientare così l’informazione, bisogna fare un investimento cospicuo, guadagnarsi almeno una residua credibilità presso un pubblico anche di nicchia che garantisca vendite o introiti pubblicitari, e solo poi si riescono a scrivere articoli faziosi e orientati, che, tuttavia, devono in qualche modo resistere allo scrutinio di un pur disastrato ordine professionale e – ultima ratio, ma in realtà la prima – alle leggi di un Paese.
    Con i social, questa onerosa trafila non è più necessaria. Così come è molto più facile sfuggire anche al controllo legale. Si mette su un sito di parvenza semiprofessionale con WordPress, anche dall’estero, e senza registrarsi come testata giornalistica. Poi basta un’unica persona dedicata e un minimo investimento in campagne di microtargeting su Facebook, per ottenere una circolazione delle proprie notizie come quella che abbiamo visto qui (tip: in Francia sono più creduloni che da noi). Il tutto, solo per il periodo che serve.
  3. Bonus track: questo è disponibile anche per inserzionisti esteri. Il che significa che, se funziona, un operatore straniero può agire in relativa economia per parlare a un segmento specifico di pubblico. Invece per un operatore straniero è molto più difficile e oneroso influenzare la linea dei giornali. Questo aspetto non è quasi mai stato sottolineato in Italia, mentre negli Stati Uniti ce l’hanno ben presente, ed è proprio fra gli aspetti che preoccupano di più. Da noi evidentemente l’ingerenza estera si dà comunque per scontata…
  4. In pratica, i social e Facebook in particolare rendono semplicemente molto facile (ed economico) indirizzare i propri messaggi a specifici gruppi di persone, in un modo che prima richiedeva molto maggiore investimento. E, se queste persone – dice Doctorow – appartengono a quelli che prima nelle elezioni si astenevano, perché di opinioni più estreme di quelle rappresentate dai partiti tradizionali, ora sentono che le proprie opinioni sono espresse da qualcuno e, tramite la validazione sociale dei like e degli share, pensano di non essere più soli e addirittura di poter far parte di un movimento, di avere riprova sociale. Avevamo ipotizzato proprio questo meccanismo di rafforzamento e di attivazione delle proprie idee in questo articolo dedicato a Facebook e Cambridge Analytica.
  5. Doctorow dice che Facebook non è un raggio mentale per far cambiare le opinioni alla gente. Non serve: serve semplicemente a motivare e a spingere alla partecipazione alcuni estremisti che prima non partecipavano. In elezioni giocate su scarti minimi di voti, è sufficiente questo. E grazie al social di Zuckerberg, è possibile parlare a quelle persone, e proprio a quelle.
    (Prevengo l’obiezione: ma il microtargeting non è così preciso. Bene, ma anche se i messaggi sono visti da qualcuno che non è d’accordo, verrano ignorati e al massimo non avranno effetto; mentre verranno ricondivisi nella cerchia dei più convinti, ad esempio tra i maschi bianchi di possibili simpatie suprematiste tra i 30 e i 50 anni…).

Quindi il microtargeting non ha cambiato quello che le persone pensano: ha convinto estremisti e razzisti, che prima si sentivano esclusi, a partecipare. Questo, in presenza di un candidato che non si fa remore a esprimere posizioni razziste ed estremiste, ha fatto la differenza.

Anche perché non ha perso buona parte dei non razzisti, vien da dire: ma su questo aspetto bisognerà tornare a parte.

L’etica e la privacy: perché tutto ritorna al solito vecchio dibattito che non appassiona la ggente

Doctorow ne fa, come suo costume, un problema di etica. Dice senza mezzi termini che Facebook ha prima accumulato “dossier” su tutti i suoi iscritti (i dossier sono i dati che possiedono sui nostri gusti e comportamenti). Poi, siccome singolarmente questi dossier non valgono poi molto, ha deciso di aggregarli e venderli al miglior offerente, senza alcun filtro. Solo per guadagnarci una manciata di dollari: costano infatti abbastanza poco queste campagne targetizzate.

Probabilmente la questione è più complessa di così, perché a Facebook parte di quei dati sono stati trafugati: ma il furto era talmente semplice da non farlo sembrare un furto neanche al ladro, e il derubato si è talmente poco preoccupato che non ha fatto mai alcuna denuncia, limitandosi a cambiare la serratura… un anno dopo!

Valiamo poco e sporchiamo molto: per quello i costi ce li scaricano e i guadagni se li tengono

La questione di etica, insomma, c’è. Doctorow dice che i nostri dati, che singolarmente valgono pochissimo, sono stati usati come stracci che, imbevuti di petrolio, stanno incendiando il pozzo delle nostre democrazie. Un caso di capitalismo di rapina: privatizza pochi margini di utile (il poco che Facebook si guadagna dalle singole campagne sui nostri dati) scaricandone gli effetti nocivi sulla collettività. Come un’industria inquinante scarica i suoi rifiuti nei torrenti: tanto a basse concentrazioni prima che se ne accorgano passeranno anni.

Doctorow fa risalire il problema a quello dell’invasività di quella piattaforme rispetto alla nostra privacy (non ci è veramente data la possibilità di sottrarci a questa raccolta) e poi alla scarsa etica nella gestione aziendale: i dati sono rubabili, i profili hackerabili, utilizzabili da governi autoritari per perseguire gli oppositori. Insomma, sono gestiti dall’azienda di Zuckerberg con estrema spregiudicatezza. Nonostante questo, sembra che riesca facilmente a tenersi i vantaggi e a scaricare con facilità i costi sulla comunità.

Ve l’ho detto, un articolo interessante. Qui ho fatto un mio commento in relazione a ciò di cui avevamo già parlato, ma vale la pena leggerlo con attenzione, comunque la pensiate.

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