Notizia del 2013, ingiustamente passata in sordina: il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, come da Decreto del Presidente della Repubblica n. 62 del 16 aprile 2013 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 giugno 2013, non prevede più per gli interessati l’obbligo di esprimersi in modo chiaro e comprensibile, sia a voce sia per iscritto.
E’ un arretramento: infatti il precedente codice, emanato nel 2000 dall’allora ministro Bassanini e pubblicato sulla G. U. n. 84 del 10 aprile 2001, prevedeva esplicitamente (art. 11, comma 4) che:
Nella redazione dei testi scritti e in tutte le altre comunicazioni il dipendente adotta un linguaggio chiaro e comprensibile.
L’obbligo opposto
Ora questo obbligo non solo è sparito, ma viene specificato che:
(…) nel rispondere alla corrispondenza, a chiamate telefoniche e ai messaggi di posta elettronica, opera nella maniera più completa e accurata possibile.
La differenza non è di poco conto: la completezza e l’accuratezza giustificano infatti ogni tipo di ridondanza e di ripetizione nelle locuzioni. Poiché aggettivi anche simili portano con sé sfumature di significato diverse, se bisogna essere completi, meglio includerli tutti che usarne solo uno. Pazienza se questo rende il testo lento, complesso, difficile da leggere e da capire.
D’altra parte, basta vedere come è scritto il codice stesso. Come nota in questo post il linguista Michele Cortellazzo, lo stesso articolo in cui si definiscono i nuovi obblighi contiene frasi di 88, 70 e 66 parole, ed è pieno di espressioni burocratiche (“qualora”, “in merito a”, “in ordine a”…).
Colui che ha licenziato un tale obbrobrio è Filippo Patroni Griffi, allora ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione del governo Monti, che ha rilasciato il testo poco prima della scadenza del suo mandato.
A chi importa? Sono codici che non contano nulla
Forse. Si potrebbe dire che la chiarezza non sia mai stata al centro delle comunicazioni pubbliche. Ma alla fine degli anni ’90, almeno si riconosceva un lungo percorso, con il contributo di linguisti di grande fama, per tentare di abbattere la barriera fra il mondo pubblico e il cittadino. Il lavoro di Tullio De Mauro, ma non solo, quantomeno veniva legittimato e i dipendenti virtuosi, che sentivano il bisogno di parlare e scrivere in modo più chiaro, avevano una norma che li autorizzasse a farlo.
Poi, il mondo pubblico è un mare magno. All’interno c’è di tutto, e non possiamo pensare che bastasse il codice di Bassanini (il primo tra l’altro a parlare di usabilità nella PA…) per trasformare secoli di tradizione orientata alla pomposità, ai cavilli, all’enfasi che consiglia specifiche figure retoriche composte di ripetizioni e accumulazioni. E all’uso di gerghi che segnalino soprattutto l’appartenenza ad una elite in grado di riconoscerli, e marchi una netta distanza dal popolo.
Scrivere chiaro non è facile. Spesso implica una riscrittura, un attivo controllo della propria lingua. Senza incentivi, peggio, con incentivi contrari, è molto difficile che qualcuno si assuma tale fatica.
Chiediamo perciò a chi può occuparsi di linguaggio all’interno della PA: rilegittimate i vostri dipendenti, incentivandoli nel tentativo di scrivere in maniera chiara. Cambiamo assieme questo codice. Riscriviamolo, e rimettiamo al centro la chiarezza e la comprensibilità.
Oppure non lamentiamoci dello scontento persistente dei cittadini nei confronti della PA: “controriforme” come questa segnalano che, forse, ce la siamo davvero cercata.