Twitter, gli acquisti in stream, l’usabilità e la persuasione

Come annunciato, Twitter sta cambiando. Ieri ha lanciato in via sperimentale, solo negli USA e solo per una minoranza di utenti, la sua proposta di e-commerce direttamente dallo stream. Accanto ad alcuni oggetti, comparirà un bottone “Buy”. Fornendo i propri dati di pagamento una volta, in seguito gli acquisti verranno fatti con il fantomatico “un solo click”. Che a pensarci sembra usabilità, sì, ma soprattutto per chi vende, che ha meno chance di veder annullare in qualche punto la transazione. Non è chiaro se questo meccanismo ultrasemplificato incoraggerà acquisti d’impulso (probabile), se avrà un meccanismo di prevenzione degli errori (click per sbaglio), che consenta di annullare gli acquisti (auspicabile).

Beni digitali e importi piccoli

Al momento il servizio viene proposto in accordo con alcuni partner e sembra orientato soprattutto allo scaricamento di beni digitali. Musica, giochi, ebook e simili (preset per programmi molto targettizzati, come pennelli per Photoshop o Manga Studio, per esempio, hanno una loro piccola nicchia di mercato). Secondo alcuni esperti funzionerà meglio per piccoli importi. E per esperienze legate all’immediatezza. Consentendo magari a enti di beneficienza di raccogliere in modo virale piccole donazioni in momenti mirati, magari sull’onda dell’emergenza o dell’emotività.

I social network si rincorrono

Non è un servizio del tutto inedito, visto che anche Facebook fa qualcosa di simile. Ciò ci conferma due cose:

  1. La difficoltà anche per i social network di grandi dimensioni di monetizzare in misura soddisfacente, tanto da dover diversificare i canali di revenue
  2. Il fatto che il social è in realtà persuasive, come abbiamo già detto. Emblematica la dichiarazione del responsabile del servizio Nathan Hubbard secondo cui “Vi sono continue conversazioni su Twitter … e molte di queste conversazioni stanno già portando a transazioni”.

Internet, e in particolare i servizi gratuiti, hanno un fortissimo bisogno di aumentare la profittabilità. Un po’ per soddisfare le aspettative degli investitori, un po’ per avere margine di crescita. E’ infatti molto rischioso per un servizio rimanere piccolo. Si rischia di diventare irrilevanti, di venir acquisiti da un qualche big player che ha le risorse per clonare le stesse idee. Si sta verificando un po’ anche qui la rincorsa alla crescita esasperata, che non basta mai, che abbiamo avuto modo di vedere nell’economia negli ultimi 30 anni? La rete porterà ad un’ulteriore aumento nella concentrazione del potere, invece che ad una sua diffusione, come era inizialmente auspicato?

E’ presto per fare un’analisi di questo tipo, ma il rischio c’è tutto. Accanto al rischio, c’è una certezza. Che ancora una volta cambiano le policy sulla privacy. Per consentire un migliore utilizzo e scambio di dati anche con i partner del nuovo servizio.

Un nuovo annuncio sta inoltre facendo pensare che i grandi servizi di social network si stiano rincorrendo, e che alla fine, invece di offrire un panorama variegato dove ognuno farà la sua parte in un più ampio ecosistema, ne rimarrà uno solo che si “mangerà” tutti gli altri.

Il Grande Algoritmo che Tutto Regola

Si è ventilato, speculato e poi smentito, almeno per ora, che Twitter voglia cambiare il suo algoritmo in modo da scegliere quello che gli utenti vedono nel loro flusso in base ad una valutazione di rilevanza, come già fa Facebook, invece che, come è sempre avvenuto su Twitter, in ordine cronologico inverso. Se avvenisse, il cambiamento potrebbe significare la fine di Twitter come canale di news, ruolo che l’ha reso uno dei social più usati da giornalisti e celebrità, che l’hanno sfruttato come un vero e proprio ufficio stampa virtuale. Ma che ha anche consentito di veder emergere trend inaspettati in corrispondenza di eventi traumatici (terremoti, alluvioni, guerre, attacchi terroristici, ecc.).

In alternativa, potrebbe essere che semplicemente Twitter voglia ripostare nella timeline contenuti rilevanti che sono andati persi nel flusso, senza per il resto eliminare la visibilità dei nuovi tweet. Di fatto, una selezione di “most relevant”, che in qualche misura già propone nei digest via mail.

Quale visibilità dei risultati?

Sia come sia, e data la facilità che questi servizi hanno nello sperimentare una novità su un sottogruppo di utenti, anche a loro insaputa, e poi di valutarne i risultati, risulta chiaro che, in tutte queste cose, noi siamo il prodotto che viene venduto. Non che in tv non sia così, ma la possibilità di sperimentare con il pubblico è molto maggiore.

A differenza della tv al momento i social media godono di un’aura, sia legata all’utilità, sia all’entusiasmo con cui sono presentati nei media tradizionali (e che si spiega in parte, dopo l’iniziale diffidenza, con la speranza di ricevere almeno un riflesso di quell’aura…), che consente loro di agire sostanzialmente indisturbati, senza l’emergere di un filone critico che si chieda se:

  1. tutte queste “sperimentazioni” debbano poter essere svolte senza alcun preavviso (in fondo negli esperimenti scientifici bisogna sottostare a precisi vincoli etici, che qui sembrano quanto meno imponderabili…);
  2. se i risultati debbano poter essere tenuti nascosti;
  3. se non ci debba poter essere almeno proposta l’opzione di opt-out;
  4. o un pannello di controllo che ci faccia scegliere meglio la nostra disponibilità ad una forma o all’altra di algoritmo, di manipolazione, di sperimentazione.

E’ probabile che questa mancanza, o sostanziale irrilevanza, di un filone “critico” dipenda, oltre che dall’esperienza soggettiva di divertimento e utilità e dalla “buona stampa” di cui godono sulle riviste e i siti di settore questi servizi, anche dalla mancanza di un “evento catastrofico”.

The Big One

Di fatto, cioè, non è ben chiaro alla maggioranza quali siano, al di là della teoria, i rischi veri e propri che corriamo con questi strumenti. La nostra privacy, ok. Ma in che senso la perdita di questa privacy ci può minacciare non è ben chiaro a nessuno, o alla stragrande maggioranza degli utenti.

Se ci pensiamo, non si assiste nemmeno ad una sollevazione di massa nei confronti del programma PRISM dell’NSA. Di fatto, la differenza fra queste situazioni e quelle che consideriamo minacce, è la loro visibilità. Un reato si vede. Un’intercettazione no. Un furto ci fa mancare un oggetto. Una condivisione massiccia fra alcune aziende del nostro pattern di comportamento o dei nostri dati personali ci fa al massimo, per ora, proporre articoli che ci interessano di più nei banner.

La minaccia assente

Un po’ come le violazioni degli hacker ai profili cloud degli utenti sono per lo più avvenute, forse anche sul nostro profilo, senza che ne abbiamo contezza, e forse senza che mai l’avremo (perché può darsi che semplicemente l’hacker sia in possesso dei nostri materiali ma non ne faccia nulla di utile, o di visibile…), allo stesso modo le violazioni della privacy sono un concetto eventuale. Astratto. Dai confini incerti. Le possibili proposte di contenuti o di acquisto congruenti con le nostre idee e i nostri interessi sono ben lontane da qualcosa che sentiamo come una minaccia.

In questa percezione, che probabilmente è in qualche misura una falsa percezione di sicurezza, si annida un potenziale molto alto di abuso da parte di aziende private, ma anche di incidenti collaterali imprevisti in caso di accesso fraudolento agli stessi dati. Ma sono abusi che non sappiamo ancora immaginare, quantificare, di cui non percepiamo la minaccia. Ed è qualcosa che forse non percepiremo mai.

Di certo non ce lo faranno volontariamente percepire tramite un bel tastone blu con la scritta “Risk”.

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